domenica 28 febbraio 2010

Teorizzazioni dell'apparenza


[…] quarant’anni dopo, quell’insulto, terrone, è praticamente scomparso. Chi fa più caso all’origine geografica di un cognome o di un nome? È bastata una generazione per cancellare gli effetti di questa segregazione. E grazie a quell’immigrazione interna dal 1970 l’Italia, la sua industria, la sua economia, la sua cultura, hanno potuto crescere.

Adesso la sfida è la stessa: costruire una nuova unità, una nuova ricchezza del Paese. La sfida è mettere la generazione dei nostri figli nelle condizioni di considerare normale la differenza di pelle, di nome, di religione, al punto da non considerarla più una differenza. Ci vorrà tempo. Forse, come per il piccolo Elio e per tutti noi ex terroni, ci vorrà un’intera generazione. Ma le fondamenta perché questo avvenga dipendono da quello che noi facciamo oggi.


La segregazione tra italiani e stranieri è ancora feroce, ma il sistema xenofobo che l’ha voluta si avvia alla decomposizione.


Non ha futuro.


Il sistema di potere che l’ha prodotto è già morto, sta marcendo nel cancro delle tangenti, nelle complicità con la mafia, nella parodia dell’onestà e della buona amministrazione che dal 1994 in poi ha diviso l’Italia e l’ha ridotta al cadavere che è. Il capolinea di tutto questo è il 2013, forse anche prima.


Poi ci sarà il vuoto.


E tutti noi, cittadini onesti, che non ci riconosciamo nel marciume della corruzione, abbiamo l’obbligo di riempirlo. Anche semplicemente con la nostra presenza, con le nostre piccole azioni quotidiane.
Fabrizio Gatti, nel blog di Gilioli.
Mi chiedo, ma Gatti è mai stato a Parigi, Londra, Amburgo, New York? E cosa ha potuto vedere, se si è spostato di qualche isolato dal suo albergo a quattro o cinque stelle? Crede veramente che il Sudafrica sia quello rappresentato da Estewood e che basti Mandela e Obama? Che sia sufficiente mandare a casa Berlusconi per “redimere” l’Italia da tutte le mafie nostrane e internazionali, ecc. ecc.? È sincero Fabrizio Gatti quando parla della “parodia dell’onestà e della buona amministrazione che dal 1994 …”? Dal 1994? La vogliamo smettere di ridurre la totalità ad un frammento, di illudere le nuove generazioni che è con il “perdono” e con “l’onestà” che si superano le contraddizioni della sopravvivenza? Possibile che non si capisca che queste parole sono in ritardo sulla realtà, che sequestrano ogni diversa riflessione alternativa sulla natura irriformabile di questo sistema?

sabato 27 febbraio 2010

Leggende e controleggende


[...] Adolf Hitler soffri[va] di stomaco nervoso e flatulenza. Quando il dittatore scoprì che ridurre la carne rendeva meno puzzolenti le sue emissioni intestinali, provò a privilegiare i consumi vegetali. In realtà, nonostante la leggenda che fosse vegetariano, Hitler non abbandonò mai le adorate salsicce bavaresi e altri piatti di carne, e con i vegetariani veri fu sempre feroce [*]. Mise al bando le associazioni vegetariane [**] in Germania e più tardi nei territori occupati [indimostrato].
 
da il manifesto del 26-2-2010, p. 11.

[*] Notizia senza alcun fondamento storico.
[**] In realtà, nel 1934 il regime aveva costituito la Deutche Gesellschaft fur Lebensreform e vi aveva annesso le associazioni vegetariane esistenti; l'anno dopo la Deutche Vegetarien-Bund, fondata nel 1892, fu sciolta dai suoi stessi membri, riaprì nel 1946 con il nome modificato.

Quindi?


La Corte dei Conti, nel rapporto su «Risultati e obiettivi delle operazioni di privatizzazioni di partecipazioni pubbliche», sottolinea che l'aumento dei profitti da parte delle ex società statali divenute private, tipo banche e autostrade, «è in larga parte dovuto, più che a recuperi di efficienza sul lato dei costi, all'aumento delle tariffe che, infatti, risultano notevolmente più elevate di quelle richieste agli utenti di altri Paesi europei».

Quanto alle modalità con sui sono state realizzate le operazioni di privatizzazione, «evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall'elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito».

Quindi?

venerdì 26 febbraio 2010

Kristeva


Continua indefesso il lavoro preventivo contro la realizzazione di qualunque diversa possibilità di agire, commissionato dagli specialisti della rassegnazione organizzata agli ex agenti del marxismo psicanalitico: il pensiero diluito e indebolito che doveva mettere in discussione l’esistente, contestare le idee dominanti, è ritornato alla casa del padre.
Una prece.

Dèi e schiavi


« L'uomo è creato per liberare gli dèi dalle loro fatiche; essi lo hanno modellato dall’argilla » (Julien Ries, I miti del cielo, Osservatore romano, 26-2-10, p. 5).


La violenza è sempre costitutiva della sovranità e si manifesta nelle più svariate forme di oppressione, non ultima quella religiosa.

giovedì 25 febbraio 2010

Padroni e schiavi


Il principale azionista della Fiat, ex IFIL ora Exor, detiene:
332.587.447 azioni ordinarie (30,45%);
31.082.500 azioni privilegiate (30,09%).
Sono stati staccati i seguenti dividendi:
0,17 euro per le ordinarie e 0,31 euro per le privilegiate.
Quindi: 56.539.865,99 euro per le ordinarie e 9.635.575 per le privilegiate.
Totale dividendi per il solo azionista di maggioranza:
66.175.440,99 euro.
Attualmente gli operai e gli impiegati Fiat sono in cassa integrazione per 2 settimane, pagata con i soldi di pensionati e lavoratori (87% del gettito fiscale).

Umano troppo umano


Scrive Malvino:
«la relazione padrone-servo è cosa eminentemente umana». Certamente, non ci piove, riguarda la nostra specie; ma non semplicemente nel significato che l'antropologia corrente dà al termine. Dire: «la relazione padrone-servo è cosa eminentemente sociale», cioè storica, mi sembra si accompagni meglio; altrimenti ogni tipo di rapportro sociale diventerebbe "umanamente" inalienabile, cioè immanente e perpetuo.

Ma è questo solo un modo per far salva l'utopia e la speranza? Nelle sue forme storicamente determinate, prescindendo dalla fictio juris, il rapporto di dipendenza tra padrone e servo è sempre esistito nelle società di classe. Ma non tutte le società sono state società classiste. Resta aperta la questione se in una società progredita sia possibile che le classi sociali  "scompaiano". Più che pessimisti o ottimisti è necesario essere realisti .......

E, comunque, sempre tenendo presente l'XI tesi. 

mercoledì 24 febbraio 2010

La questione fiscale


La politica finanziaria del governo [… è] destinata […] a  […] “salvataggi” bancari e industriali, e a coprire le perdite causate dalle ruberie [… degli] amministratori del pubblico denaro al di fuori di qualsiasi controllo.
[Domina] la teoria della cosiddetta “politica fiscale produttivistica”, con la quale ven[gono] giustificati tutti i privilegi tributari concessi ai padroni dal governo […]; teoria […] continuamente ripetuta sui giornali della destra economica: per non accrescere i costi di produzione – si dice – non conviene colpire con le imposte dirette i profitti industriali: questi profitti, se esentati dalle imposte, vengono reinvestiti in attività produttive, sviluppando l’economia nazionale, con vantaggio dell’intera collettività; vale, per i grandi industriali, quello che Virgilio diceva delle api: Sic vos non vobis mellificate; quante meno imposte gravano su di loro, tanti minori ostacoli frenano lo sviluppo dell’economia nazionale.
I disinteressati sostenitori di questa teoria non tengono conto del fatto che il prezzo dei servizi pubblici [sanità, previdenza, trasporti, energia, istruzione, burocrazia, sgherri, cortigiani, ecc.] costituisce un elemento del costo di produzione di qualsiasi attività industriale; elemento che se non viene coperto con le imposte sul reddito […] deve necessariamente essere caricato sulle spalle degli altri contribuenti; né tengono conto del fatto che una gran parte dei redditi industriali, lasciata libera dai carichi tributari, invece di venire investita nel finanziamento delle imprese, è sperperata dai Grandi Baroni, dalle loro famiglie, dalle loro amanti, dai loro parassiti, dai loro eredi, in ville, gioielli, pellicce, feste, crociere, servitù, gioco e speculazioni sballate.
Questo scritto, datato ma sempre attuale, di Ernesto Rossi, si riferisce alla politica economica e fiscale del fascismo. L’unico punto in cui potrei trovarmi in disaccordo è nel credere o dubitare che i padroni “non tengono conto del fatto”. Ma sono certo che l’espressione sia solo un modo retorico.
* * *
Scrive Romano Prodi sul Sole24ore:
«Debbo tuttavia ammettere che un errore l'ho fatto davvero nel volere a ogni costo il cuneo fiscale. Come professore sapevo infatti (e ne sono ancora oggi convinto) che esso sarebbe stato molto utile all'economia italiana ma, come politico, ho fatto qualche calcolo sbagliato perché, dopo l'ottenimento dei vantaggi dello scudo, l'opposizione della Confindustria al mio governo si è fatta ancora più dura e quotidiana. Dato però che il provvedimento era buono in sé, almeno come professore, non me ne sono pentito».


Nessun errore, Professore, lei ha solo svolto il compito al quale era stato adibito, cioé di servire la causa del capitale, per sua natura avido di zeri ma irriconoscente. Le sue parole però rivelano un fatto, del resto confermato implicitamente dalle parole di Ernesto Rossi: gli intellettuali al servizio del sistema sono più in declino del sistema stesso, ed è caratteristico e sempre pateticamente uguale il loro tentativo di manipolare i veleni per trovare degli antidoti.

martedì 23 febbraio 2010

Nobel


Il premio Nobel per la pace Barack Hussein Obama II ha deciso di far installare una base militare statunitense equipaggiata con dei missili Patriot a Morag, città a 100 chilometri dal confine russo. Inizialmente si era annunciato che i Patriot sarebbero stati posizionati nei pressi di Varsavia, mentre ora il ministro della Difesa polacco, Bogdan Klich, ha annunciato che Morag è una scelta migliore. I Patriot in Polonia saranno operativi, secondo le previsioni, entro il prossimo mese di giugno.
Gli USA installeranno in Polonia anche dei radar e tutta una serie di apparecchiature elettroniche che consentiranno – secondo i russi – di spiare le attività militari russe nella regione di Kaliningrad.
Il presidente Dmitrij Anatol'evič Medvedev ha dichiarato: “La Russia è molto preoccupata per il sistema anti-missile che gli Stati Uniti stanno installando in Polonia e nella Repubblica Ceca, che non erano luoghi necessari se tali missili si volevano rivolgere contro l’Iran. E se non è contro l’Iran, allora contro chi?”.
Gli Usa, è bene ricordarlo, erano decisi di scatenare un conflitto mondiale, nel 1962, se i russi non avessero smobilitato i propri missili da Cuba.
 ***
Nel settembre scorso vi fu una strage con almeno 90 vittime civili afghane causata da un bombardamento delle truppe di occupazione Nato su mandato Onu. Il 5 novembre 2008 i morti civili furono 40, il giorno dopo, altri 7. Nel settembre 2008 nella provincia di Farah altri 7 morti, fra loro alcuni bambini, mentre il mese prima erano stati uccisi 76 civili afghani, di cui 50 bambini. Eccetera.
Ieri c’è stata per l’ennesima uccisione «fortuita» di civili (almeno 33, comprese quattro donne e un bambino, e 12 feriti) provocata dal solito raid aereo americano. Secondo quanto riporta il sito web del New York Times, il comandante delle forze statunitensi in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, si è scusato personalmente con Hamid Karzai (uno dei tanti capi mafia locali).
A suo ritorno in patria, il generale verrà ringraziato dal Nobel per la pace Barack Hussein Obama, per i servigi resi alla nazione e al popolo americano.

Àmbito condiviso


Sei uomini e una donna ritenuti appartenenti all'area anarco-insurrezionalista sono stati raggiunti da provvedimenti giudiziari a Torino. Sono contestati episodi commessi negli ultimi due anni, tra cui l'incursione con lancio di letame contro un ristorante …….(La Stampa).
*
Intervista per "Diva e Donna" di Luigi De Magistris:
A parte Travaglio, cosa legge?
Prediligo in particolare Marx e Nietzsche. Sfoglio spesso anche il Vangelo per il suo messaggio universale di convivenza e rispetto fra gli uomini.
**
L'asilo comunale? Solo per i bambini che provengono da famiglie che accettano «l'ispirazione cristiana della vita». Il regolamento è stato approvato a maggioranza dal consiglio comunale di Goito. La giunta di centrodestra - capeggiata dal sindaco Anita Marchetti, area Udc, appoggiata da parte del Pdl e dalla Lega Nord - motiva tale decisione con il fatto che, «pur essendo l'asilo pubblico, da sempre viene gestito secondo criteri che si ispirano al cristianesimo» (Gazzetta di Mantova).

Contrappuntino:
La coscienza individuale può divenire coscienza soltanto realizzandosi nelle forme ideologiche dell'ambiente che gli vengono date. Ad un letamaio, corrisponde un àmbito condiviso di merda.

«per far la guerra giusta ...»



Leghismo ante-litteram
«Dopo la vista deprimente dei soldati italiani che imploravano un pezzo di pane alla stazione di Verona, [un capitano inglese] fu rallegrato di incontrare alcuni alpini che parlavano abbastanza bene l’inglese da attribuire ai meridionali la responsabilità di Caporetto …» [347].
Effetto serra
«I soldati inglesi amavano quel punto di appostamento [il Montello, a nord di Treviso]: di giorno, rafforzavano le linee di comunicazione e le difese sull’altura; di notte “giocavano nelle acque del Piave”; quei giorni di estate indiana [tardo autunno 1917] erano molto caldi, le notti limpide e fredde, e c’era abbondante provvista di legna da bruciare. Il giorno di natale fu così caldo che “potemmo starcene tranquillamente seduti senza camicie, per liberarci dei pidocchi”» [pp. 347-48].
Tema in classe
«[gli ufficiali] quelli che danno gli ordini non sono ancora stanchi di uccidere tanta povera gente che non ha colpa: per far la guerra giusta bisognerebbe fare così: 1) mandare tutti quelli che vogliono la guerra perché già che la vogliono devono farla loro; 2) mandare avanti i ricchi che danno “fondi” al prestito nazionale di guerra; 3) mandare a casa i poveri. Così sarebbe una guerra giusta!» [353].
La maestra della scuola elementare in provincia di Mantova denunciò i suoi scolari ai carabinieri e al magistrato locale per tendenze «sovversive».
Sempre eccezionali
«Quando l’esercito di Cadorna si era ritirato dopo Caporetto, la maggior parte della popolazione aveva cercato di portare via i suoi averi: non meno di 400mila civili erano fuggiti oltre il Piave, e fra essi dipendenti statali, proprietari terrieri, avvocati e così via. L’unica eccezione erano stati gli ecclesiastici, perché molti sacerdoti erano felici di vedere il ritorno degli austriaci» [367].
Solidarietà di classe
«[…] l’oblio ha occultato un argomento ancora più delicato fino ai recenti anni novanta. Si tratta dell’atteggiamento ufficiale dell’Italia nei confronti dei prigionieri di guerra italiani nei campi austriaci e tedeschi. I 300mila soldati presi prigionieri durante la Dodicesima battaglia andarono ad unirsi ai 200mila o più che erano già tenuti reclusi nei campi di tutto l’Impero. […] il governo italiano, unico fra tutti, si rifiutò di inviare pacchi di viveri ai suoi prigionieri di guerra. Di conseguenza, oltre 100mila dei 600mila prigionieri italiani morirono durante la prigionia: una quota nove volte superiore a quella dei loro omologhi asburgici tenuti prigionieri in Italia. Solo 550 di costoro erano ufficiali che morirono di tubercolosi o in seguito a ferite; gli altri [i soldati semplici] morirono direttamente o indirettamente per il freddo e per la fame. […] le collette di beneficienza per i soldati prigionieri erano vietate. A titolo di concessione, alla Croce rossa era stato consentito di accettare i contributi ma solo per gli ufficiali» [371].
Il solito imboscato psicopatico, D’Annunzio, aveva bollato i prigionieri quali “peccatori contro la Patria, lo Spirito e il Cielo”.
Culinaria
«Soldati e civili mangiavano tutto ciò su cui riuscivano a mettere le mani: topi, fiori d’acacia, foglie di vite, cicoria selvatica raccolta dalle aiuole. Cani randagi e gatti venivano scuoiati e messi in pentola» [368].
Completa fiducia
Mentre era in corso la rotta da Caporetto, Cadorna, durante la prima colazione nel suo nuovo palazzo di Treviso (era fuggito da Udine), ad oltre cento chilometri dal fronte, «parlò dell’arte del paesaggio dell’Umbria, impressionando i suoi commensali con la sua serenità, uno stato d’animo che presumibilmente doveva qualcosa alla dichiarazione del re e del governo che avevano espresso completa fiducia nel suo comando militare» [336]. Quindi emise un ordine del giorno che diceva: «Chiunque non senta di dover vincere o cadere con onore sulla linea di resistenza, non è adatto a vivere».

lunedì 22 febbraio 2010

italia amore mio

Un processo troppo breve per Silvio

«Lo stato protegge ancor oggi il sanguinario regime di Cadorna [cioè dei Savoia]. Nel 1990, un pronipote del caporale Silvio Ortis, messo a morte per un clamoroso errore giudiziario nel 1916, cercò di riabilitare il nome del suo avo presentando una domanda di grazia. Dopo otto mesi, il tribunale militare di Roma rispose ineffabile che, secondo la legge vigente, sola la “parte in causa” poteva richiedere la grazia. Dato che Silvio Ortis non aveva presentato personalmente la domanda di grazia, questa era inammissibile. Quando la sua istanza venne respinta, il discendente scrisse al presidente della Repubblica. Nel 1998, la tenacia portò i suoi frutti: un deputato al Parlamento acconsentì a proporre un emendamento che consentiva a un coniuge o congiunto di presentare una domanda di grazia a nome della parte in causa. L’emendamento venne presentato al Parlamento nel 2001 e nel giugno 2006 una sottocommissione doveva esaminarlo per l’approvazione. Al momento in cui scrivo [2009], è ancora insabbiato» [*].

Nato a Paluzza, in Carnia, Silvio Ortis, giovane muratore senza istruzione, partecipò alla guerra di Libia dove fu decorato con due medaglie al valor militare. Scoppiata la guerra fu arruolato negli alpini e combattè sul fronte carnico non lontano da suo paese. Per aver discusso, da conoscitore della montagna e sopratutto della zona di operazioni, un ordine d'attacco suicida impartito da un suo superiore, fu condannato a morte per insoburdinazione e fucilato il primo Luglio 1916 assieme ad altri tre suoi commilitoni, Basilio Matiz di Timau, Giovan Battista Coradazzi di Forni di sopra e Angelo Massaro di Maniago, dopo un “processo” sommario condotto con spietata freddezza.

Mi chiedo: perché presentare una domanda di grazia per un uomo fucilato innocente e senza un vero processo? La risposta potrebbe trovarsi nel fatto che il nome di Ortis non può trovare posto, in quanto “colpevole”, tra quelli dei caduti nel monumento a Paluzza. Ed infatti, coloro che hanno a cuore la sua memoria, gli hanno dedicato un cippo a parte. Tanto meglio quindi, potevano evitare da subito di produrre istanze dirette a uno Stato ordinariamente infingardo, classista e razzista, retto da  «una classe dirigente nazionale tra le più premoderne, violente e predatrici della storia occidentale».

Non mancarono grandiosi tradimenti e incantesimi pericolosi a quella generazione per farsi schiacciare dalla follia più grande.

[*] Mark Thompson, La guerra bianca, p. 293.

sabato 20 febbraio 2010

Terroni


Il giorno 24 ottobre 1917, il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell’esercito italiano, si alza come solito alle 5. Trova a fianco del letto gli stivali tirati a lucido e l’uniforme impeccabile. Fa colazione «con latte, caffè e savoiardi con il burro, quindi scrive la sua lettera giornaliera alla famiglia». L’offensiva austro-tedesca su Tolmino, Plezzo e Caporetto è in atto da ore, ma il capo di stato maggiore italiano ancora lo ignora. Infatti, nella lettera ai familiari osserva che il peggioramento atmosferico favorisce la situazione di difesa.

Era tornato a Udine, al proprio comando, il 19 ottobre, dopo una villeggiatura con sua moglie nei pressi di Venezia. Era «di ottimo umore: calmo, riposato, tranquillo». Un paio di mesi prima, durante la cosiddetta XI battaglia dell’Isonzo, l’esercito aveva perso 166mila uomini; dei 40mila morti, 25mila erano stati uccisi sul monte San Gabriele. Conquistato il cocuzzolo, per celebrare degnamente la vittoria, era intervenuto il M° Toscanini (in quell’occasione in visita al figlio ufficiale), il quale diresse la banda militare. Per tale motivo, fu insignito da Cadorna della medaglia d’argento al valore (Thompson, p. 298).

Non tutti i combattenti avevano però avuto la possibilità di andare in villeggiatura come Cadorna. Ai reparti, dopo mesi di prima linea e lunghi periodi di gravosi lavori nelle retrovie, era stata promessa la licenza, ma poi era stata revocata. Ne erano seguite rumorose proteste, ma nulla di grave. Ciò nonostante, per dare l’esempio, e seguendo le direttive rigidissime di Cadorna, si procedette alla decimazione dei “riottosi”. Si mettevano i biglietti con i nomi dei soldati in uno zaino e si estraevano a sorte i condannati alla fucilazione. Uno di questi, non più giovane, aveva sette figli.

L’unico vero ammutinamento era occorso nella 6^ compagnia della Brigata Catanzaro. D’Annunzio – uno dei più pericolosi psicopatici allora presenti al fronte – «si affrettò a ritornare per assistere alle esecuzioni. Gli uomini furono allineati contro il muro di un cimitero dietro un campo di grano. Presso il muro crescevano le ortiche. “Un caldo opprimente. Le allodole cantavano”. Gli uomini, bassi, con la pelle scura, venivano dalla Campania, dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Sicilia. Intonarono, a una voce, un inno o una preghiera. Il poeta distolse lo sguardo, mentre i loro corpi si afflosciavano al suolo. I suoi appunti non riportano alcuna reazione emotiva, bensì solo particolari verificatisi dopo l’avvenimento: “Sotto le foglie vidi i berretti, gli elmetti, i brani delle cervella coperti dalle mosche a nuovoli, le righe del sangue già risecco tra gleba e gleba”. In seguito, riscrivendo di quella esperienza, si rivolse agli uomini morti: “Siete contadini. Vi conosco alle mani. Vi conosco al modo di tenere i piedi in terra. Non voglio sapere se siete innocenti, se siete colpevoli. So che foste prodi, che foste costanti” […].

L’indifferenza di D’Annunzio per l’innocenza o la colpevolezza degli uomini rispondeva in pieno allo spirito di Cadorna. Quello che importava era l’effetto deterrente (Thompson, p. 278)».

Nero e implacabile, l’odio di classe, trascolora nel sangue in odio razzista.
*
Mark Thompson, La guerra bianca, ilSaggiatore.

Riscritture


Il Concerto è un bel filmetto: ironico, sarcastico, pungente, commovente, lacrimevole, ecc. Senza altri meriti, ma da vedere, dati i tempi. Peccato che si basi su un clamoroso, quanto taciuto (salvo un direttore d’orchestra italiano nella trasmissione Hollywood party su Radiotre che ne ha parlato), falso storico: tra i tanti intellettuali perseguitati in Urss, non figurano quelli per motivi etnici o razziali, men che meno i musicisti e direttori d’orchestra (tra i migliori e più celebrati vi furono almeno un paio di direttori ebrei). Nel 1980, poi! Per dir male dell’Urss, tutto il male possibile ovviamente, non ci sarebbe bisogno di ricorrere a questi esilaranti mezzucci. Ma quando manca la virtù soccorre la menzogna. Come fai a smontarla, chi ti crede? Il pubblico subisce e giustifica tutto, specie un pubblico ripugnante che accetta di mangiare cibi industriali e l'aria che respira. E, in definitiva, perché prendersi la briga di confutare truismi così battuti?

La bimba nella valigia è un vero colpo di genio. Puah.


venerdì 19 febbraio 2010

Trottole


«Nel febbraio del 1967, Ernesto Rossi moriva a Roma. Aveva sessantanove anni. Pochi mesi prima, in una lettera a Riccardo Bauer, aveva scritto parole presaghe che vibrano di un'accensione poetica: "se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finchè il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe"


giovedì 18 febbraio 2010

Rispettabile società romana


Quali vicende hanno portato all’Ermitage il celebre gruppo marmoreo della prima versione delle tre Grazie del Canova? Curiosando su questi fatti viene fuori una delle tante singolari vicende in cui c’è l’artiglio dell’onnipresente potere Vaticano.

L'opera scultorea è realizzata dal maestro di Possagno su commissione di Josephine de Beauharnais [1], fino al 1809 imperatrice e moglie di Napoleone. Ma Giuseppina (nata Maria Josèphe Rose Tascher de la Pagerie), prima ancora di sposare Napoleone era stata maritata con Alexandre de Beauharnais, ghigliottinato nel 1794 insieme al fratello Augustin, in Piazza della Rivoluzione (Place de la Concorde) a Parigi. Giuseppina da Alexandre de Beauharnais ebbe due figli: Hortense e Eugenio (Parigi, 1781 – Monaco di Baviera, 1824) noto come Eugène Rose de Beauharnais, che divenne generale di Napoleone, nonché figlio adottivo [2].

Nel 1805 Napoleone deve nominare alla guida del neo-costituito Regno d'Italia un viceré, un uomo a lui assolutamente fedele e privo di obiettivi politici propri: Eugène de Beauharnais era il candidato ideale. Da quel momento il rampollo fissa la propria residenza principale nella Villa Reale di Monza, che vuole circondata dal più grande Parco recintato d'Europa. Eugène sposerà nel 1806 la principessa Augusta di Baviera, figlia del re di Baviera. Il viaggio di nozze da Monaco a Milano passando per Venezia sarà trionfale.

Nel 1810, fatto importante per il nostro racconto, Napoleone Bonaparte emana una legge con la quale mette a disposizione del viceré d’Italia un Appannaggio: cioè un insieme di beni destinati a mantenere la sua famiglia e la corte. L’Appannaggio Beauharnais consiste in beni da poco confiscati – in base a leggi mutuate dalla Francia – a conventi, monasteri, enti religiosi, ecc. Si tratta complessivamente di 2.300 terreni, 138 edifici urbani ed una ottantina di opifici e mulini. Sono tutti collocati nelle Marche, regione che dal 1808 era stata annessa al Regno d’Italia, in particolare nei Dipartimenti del Metauro e Musone (province di Pesaro e Urbino, Ancona, Macerata). Tra gli edifici, ad Ancona, il Palazzo Reale (dopo il 1815 chiamato Palazzo dell’Appannaggio) dove Eugenio risiede durante le sue visite alla città; attualmente è sede regionale della Banca d’Italia) [3].

Nel 1814, subito dopo il primo esilio di Napoleone, Eugenio spera di ottenere dal Congresso di Vienna un principato e una rendita annuale. Non è chiaro a quale titolo o per quali servigi [4], ma ciò conferma una volta di più, come al di là delle controversie politiche, i membri delle classi dominanti siano quasi sempre, alla fine, solidali tra loro, tanto è vero che, alla caduta definitiva di Napoleone, nessun componente della “famiglia” imperiale dovette dolersi di patire l’indigenza (Luciano Bonaparte, tra gli altri). Ad Eugenio propongono Pontecorvo di cui Bernadotte era, in precedenza, principe ereditario [5]. Ma la proposta non va in porto. Nel frattempo – mentre Beauharnais è ritornato a Monaco dove il suocero gli affida il ducato di Leuchtenberg – Napoleone lascia l’isola d’Elba e sbarca a Golfe Juan il 1° marzo 1815.

In questa breve fase Eugenio Beauharnais non svolge palesemente alcun ruolo né politico né militare [6], limitandosi ad assistere ai Cento Giorni di Napoleone che si chiudono con la disfatta di Waterloo e la definitiva abdicazione. Alla riapertura del Congresso, Eugenio – che come accennato aveva sposato la figlia del re di Baviera – ottiene dalle potenze vincitrici (con l’art. 64 del Protocollo “separato e segreto”) il diritto ad usufruire dei beni ricevuti nel 1810 come “Appannaggio” in qualità di viceré d'Italia [7], nonostante le rimostranze del cardinale Consalvi [8], che partecipa in qualità di osservatore in rappresentanza dello Stato Pontificio. La conferma dell’Appannaggio Beauharnais (ora chiamato Leuchtemberg) è una autentica spina nel fianco per lo Stato della Chiesa: il feudo è un’isola in cui i funzionari pontifici non hanno nessun potere e soprattutto non ricavano alcuna rendita. Inoltre i poderi sono amministrati da un piccolo esercito di tecnici e fattori a volte stranieri e non cattolici, e dove i parroci non possono esercitare la loro opera di evangelizzazione e carità su migliaia di contadini analfabeti. L’Appannaggio Leuchtemberg si rivelerà poi, per il Vaticano, anche una fonte di problemi politici in relazione ai moti cosiddetti risorgimentali. In tal senso, nel primo volume de Gli ultimi rivolgimenti italiani: memorie storiche di F.A. Gualterio, a p. 189, si legge:

«Coloro che nelle Marche dovevano così corrispondere al concertato sollevamento, erano composti dei due elementi che già notai in Romagna, e inoltre di un terzo, il quale in questa provincia non esisteva, od era minimo; ma invece nelle Marche era il più numeroso, e nella presente rivoluzione disponeva di più forze e di maggiori mezzi pecuniarj che non s’avessero gli altri due. Era questo il partito del duca di Leuchtemberg [Massimigliano, figlio ed erede di Eugenio], genero dell’Imperatore delle Russie, che possedeva l'appannaggio assegnato a suo padre dal Congresso di Vienna».

Solamente nel 1845 mons. Giacomo Antonelli – in seguito nominato da Pio IX, pur privo degli ordini sacerdotali, cardinale e segretario di stato – riesce, con un’abile operazione, a risolvere il problema del feudo marchigiano. Compra i beni da Massimiliano di Leuchtemberg (che li aveva ereditati dal padre Eugenio) e poi li rivende ad una società, formata da principi romani e ricchi borghesi, la quale è vincolata a rivenderli a piccoli lotti e favorire gli enti religiosi. In verità tra i maggiori compratori figurano lo stesso Pio IX, cardinali, principi e affaristi vicini alla Curia vaticana [9].

Nel 1858 rimangono ancora invenduti un quinto dei beni: sono, per la maggior parte, terreni ubicati nella bassa vallata dell’Esino (un tempo appartenuti ai Cistercensi di Chiaravalle ), il Palazzo di Ancona, un Palco al Teatro. Vengono acquistati, nell’agosto 1858, da tre commercianti anconetani (Tarsetti, Bonomi e Rebighini) dietro garanzia firmata da una ditta svizzera, operante ad Ancona, la Blumer et Jenny. I nuovi acquirenti provvederanno, dopo che le Marche entreranno a far parte dell’Italia unita, a rivendere i beni.

Ma torniamo alle Grazie del Canova. La prima idea nacque probabilmente nel 1810 quando Canova arrivò a Parigi per il ritratto della nuova moglie di Napoleone, Maria Luisa d’Asburgo, ma continua a mantenere buoni rapporti anche con la cara amica di un tempo, ovvero Giuseppina. Questa, giugno 1812, avanza al Canova la richiesta di scolpire il gruppo delle Grazie; l'artista chiede tempo perché la proposta è “estremamente delicata e piena di spine”. Ad ogni buon conto il modello in gesso è terminato nell'agosto 1813 e in ottobre Canova chiede un anticipo di venti mila franchi, affermando che avrà bisogno di circa un paio d'anni. In dicembre il riscontro positivo di Joséphine: è l'ultimo contatto che conosciamo fra il maestro e l'ex-imperatrice.

Scrive altresì Amedeo Quondam nel suo lavoro Tre Inglesi, l’Italia, il Rinascimento, Liguori 2006, p. 179:

«Canova inizia a progettare il gruppo delle tre Grazie nel 1812, in Italia (a Frascati), realizzandone un modello in terracotta che dona a Madame Recamier (l’opera è ora a Lione); l’anno successivo Giuseppina gli commissiona la scultura che sarà ultimata nel 1816 […]. Nel 1815 il duca di Bedford commissiona al Canova una replica del gruppo, che sarà collocato, in un tempietto, nella sua dimora di Woburn Abbey (per questo evento Ugo Foscolo scriverà la Dissertation on an ancient Hymn to the Graces, pubblicata nel 1822 nel sontuoso volume che celebra l’inaugurazione del sito inglese)» [10].

Comunque sia, il gruppo canoviano delle Grazie, che si rifà al corrispondente mito greco, non entrò mai in possesso della committente, cioè di Giuseppina, che morì nel maggio del 1814, sembra per le complicazioni di una infreddatura presa in giardino per accogliere lo zar Alessandro I vestita in maniera “impalpabile” [11]. L’opera venne quindi consegnata al figlio, Eugène de Beauharnais, nel marzo 1817, il quale salda il dovuto al Canova. Da questi pervenne al di lui figlio ed erede, Maximilien Joseph Eugène Auguste Napoléon. A seguito delle sue nozze con la figlia dello zar Nicola I, Marijia Nikolaevna Romanov, trasferì le collezioni della nonna imperatrice (Giuseppina) nella propria residenza russa [12]. Nel 1901 la collezione venne acquisita dall'Ermitage, ed accostata alle altre opere dello stesso Canova già acquisite dallo zar Alessandro I.

Note:
[1] Parve all'ottima imperatrice Giuseppina che lo scarpello di Canova fosse il più adattato a rappresentare le Grazie; e posseditrice come era ella di parecchie gentili opere sue, giudicò che nessuno meglio di lui avrebbe potuto trattare questo soggetto a cui gli antichi ardevano così devoto incenso. Nè mal s'appose nel suo presagio, se non che l'avara morte le chiuse il ciglio avanti che il lavoro giugnesse al suo compimento (Leopoldo Cicognara, St. della scultura, Prato, 1824, Libro VII, pp. 127-28). Per una descrizione coeva dell’impatto che ebbero le opere del Canova: Isabella Teotochi Albrizzi, Opere di scultura e di plastica di A.C., Firenze, 1809 (l’Autrice, essendo alla data in cui scrive non ancora realizzato in marmo il gruppo delle Tre Grazie, descrive, p. 96 e ss., la danza di Venere colle Tre Gazie, bassorilievo in gesso).
[2] «All'epoca del terrorismo, Giuseppina Beauharnais trovavasi in prigione, quando il di lei marito lasciò la testa sul palco, Eugenio, di lei figlio, venne collocato a servire in casa di un falegname, ed Ortensia, di lei figlia, in casa di un lavorante in biancheria (Las Cases, Memoriale di Sant’Elena, trad. it. vol. IV, p. 70 cit. da Tradizioni italiane per la prima volta raccontate, Torino 1850, vol. IV, p.553)».
«Giuseppina Beauharnais, donna di Buonaparte, non sembra che negli affetti restasse fissata dagli allori; prodiga, frivola, intrigante, avversa ai Giacobini perché legata coll'antica nobiltà, giovò immensamente alla grandezza di esso per le sue relazioni. De' figli di lei, Eugenio era buon soldato, carissimo a Buonaparte che l'avea seco avuto in Egitto. Ortensia, educatala quella madama Campan ch'era stata confidente di Maria Antonietta, sposò di poi Luigi Buonaparte (Cesare Cantù, Storia di Cent’anni, Torino 1863, vol. II, p. 232)».
[3] (…) l'ambizioso Napoleone in vece di mostrarsi grato ai suoi benefizi, e rispettare la sua pacifica neutralità conveniente alla sua dignità, incomincio ad invadere i suoi stati, siccome indicammo al citato vol. XX, pag. 20 del Dizionario; prima occupò Ancona e sua provincia, poscia fece altrettanto con quelle di Urbino, Macerata e Camerino, Benevento e Pontecorvo (Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. XXVII, p. 121).
[4] «La condizione delle cose era tanto disperata, specialmente dopo l'invasione della Francia, che Eugenio mentre s’adoperava per essere proclamato re d'Italia dal senato italiano, trattava cogli austriaci per disciogliere l'esercito e consegnar loro le piazze forti (Giovanni L. Cecilia, Storie segrete delle famiglie reali …, Genova 1859, vol. IV, p. 310)».
[5] Sempre nel Dizionario del Moroni, nel vol. XCIX, ove si parla del Congresso di Vienna, alla p. 332, si legge: Quanto al principe Eugenio Beauharnais, figliastro di Napoleone I e già vicerè d'Italia, nella convenzione di Vienna del 23 aprile 1815, gli fu assegnato un distretto nel regno delle due Sicilie, contenente una popolazione di 50.000 abitanti, ma non essendo ratificata nell'atto finale del congresso, ed opponendosi Ferdinando I, ottenne nel 1817 darglisi in compenso 5 milioni di franchi.
[6] «Questo procedere antipensato, d'indietreggiare via via che Gioacchino venisse incontro e Napoleone precipitasse, era fatto credere conseguire dalla condotta volubile di Gioacchino. E fin la moglie ebbe a crederlo, e mandò in fretta al marito, l'un dopo l'atro, il conte di Mosbourg e il duca di Santa Teodora, incitandolo che combatesse; conciossiachè solo in questo, in concorrer davvero con gli alleali, anch’ella, dicono, vedesse scampo alla sua caduta. Ma Gioacchino, si volse in un subito al Viceré, proponendogli, con una lettera, di riunire insieme gli eserciti e dar addosso al comun nimico. E comandò al duca di Campochiaro, mandolo a Vienna, che subito ritornasse; e al de Angelis, il quale in Napoli soprastava, assente il ministro, agli affari esteri, che non pubblicasse il trattato; ma l'ordine non giunse in tempo. Eugenio, por diffidenza o vendetta, mise in mano a’ nimici la stessa lettera; Gioacchino allora, stizzito, gittavasi ad assaltarlo; quando, Napoleone disfatto, la guerra anche in Italia si fu cessata».
Archivio storico italiano di deputazione toscana di storia patria, Firenze 1856, tomo terzo, p. 68.
[7] Il Moroni scive: «E siccome nella summentovata convenzione di Vienna del 25 aprile, fu pure stabilito che al principe Eugenio Beauharnais (di cui riparlai nel voi. XCIII, p. 47) dovesse competere l'appannaggio d'un milione di lire, assegnatogli da Napoleone I nel 1810, e formato per la più parte co' beni ecclesiastici delle Marche, e perciò dovesse conservarne il godimento; il Papa Pio VII, fisso nel principio dell’inalienabilità de' beni ecclesiastici, protestò di doversi opporre, e che se cedeva alla forza non si prestava che passivamente. Da ciò ne venne, che si adottò il ripiego di conciliare il tutto con un enfiteusi, mediante il quale nel 1816 Pio VII concesse al principe Eugenio l'investitura de' beni dell'appannaggio, col patto che pagasse un laudemio di 160.000 scudi, e l'annuo canone di 4.000; riserbandosi la facoltà di redimere nello spazio di 9 anni i beni concessi, sborsando 3.170.000 scudi (la redenzione fu poi fatta da Gregorio XVI nel 1845, collo sborso di 3.750.000 scudi, come notai nel vol. XXXII, p.326 ed altrove)».
[8] Il cardinal segretario di stato Consalvi, fomentatore di discordie tra il Papa e Napoleone, dovette ritirarsi fino alla caduta dell’Imperatore (ibidem). Sulla figura complessiva del card. Consalvi, cfr. il vol. XVII, alla voce.
[9] Dal vol. XXXII, p.326, del Dizionario: I beni rustici ed urbani costituenti il così detto Appannaggio negli stati pontificii, concessi dalla santa Sede coll' annuo canone di quattromila scudi, fino dagli 8 maggio 1816, in enfiteusi al defunto principe Eugenio Beauharnais, e quindi passati alla principessa Augusta Amalia di Baviera di lui vedova consorte, ed al figlio principe imperiale di Russia Massimiliano duca di Leuchtenberg, furono coll’autorità del pontificio chirografo de' 22 marzo 1845, e col contratto formalmente stipulato a' 3 aprile , ricuperati all'utile dominio della santa Sede dal cardinal Mario Mattei a ciò deputato, per il prezzo di tre milioni settecento cinquantamila scudi. La real casa di Leuchtenberg fu rappresentata dal commendatore Roux de Damiani. E perchè la detta ricupera della massa de' beni meglio corrispondesse alle sovrane intenzioni, di essere cioè con tante vendite divisa in favore specialmente dei luoghi pii, corpi morali e sudditi pontificii, onde l'industria pubblica se ne giovasse a maggior incremento del commercio interno, con chirografo de'  14 aprile e stipolazione de' 24 detto, ebbe luogo la retrovendita generale de' medesimi beni ad una rispettabile società romana, per quindi effettuare le parziali vendite.
[10] Alcuni versi del carme Le Grazie del Foscolo, vennero pubblicati nella Biblioteca Italiana, nel 1818 (Canova poneva la prima pietra al Tempio canoviano di Possagno); nel 1822 (l’anno della morte del Canova), vennero poi pubblicati 184 versi delle Grazie nella Dissertation on an ancient Hymn to the Graces, così come scrive Amedeo Quondam; ma la prima edizione integrale delle Grazie, Foscolo non la vide: fu, infatti, pubblicata postuma, nel 1848, con ampi e arbitrari rimaneggiamenti dell’Editore.
[11] «Malmaison, luogo di delizia, sommamente reso piacevole da Napoleone I, che non raramente vi dimorava. Ritirossi in esso, dopo la separazione da lui, l'imperatrice Giuseppina Beauharnais Tascher de la Pagerie, madre del principe Eugenio viceré d'Italia e poi duca di Lenchtemberg; e nel 1814 vi ricevè parecchie visite dell'imperatore di Russia Alessandro I, che rese onorevole testimonianza alle amabili qualità del suo spirito (Moroni, vol XCV, p. 58)».
[12] Secondo Amedeo Quondam, op. cit. p. 179, le Grazie furono portate da Monaco in Russia dal principe Nicola di Leuchtenberg, figlio di Massimiliano di Leuchtenberg e della granduchessa Maria Nikolaievna, figlia di Nicola I.

mercoledì 17 febbraio 2010

Due facce della stessa medaglia


«Le società "liberali" dell'Occidente propugnano ancora a fior di labbra come base della loro morale una scoraggiante miscellanea di religiosità giudaico-cristiana, di progressismo scientistico, di fede in alcuni diritti "naturali" dell'uomo e di pragmatismo utilitaristico».
Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, 1970, p. 137.

Uaar


Quest’anno non ho rinnovato l’iscrizione all’Uaar. Di questa associazione critico l’impostazione, cioè l’eccessivo peso che assegna al darwinismo (del quale ovviamente non nego il rilievo epistemologico), il trasbordante accento biologico trasfuso nel dibattito interno e soprattutto nelle iniziative rivolte verso l’esterno. In tal modo, a mio avviso, viene trascurato il discorso sugli aspetti e la natura essenzialmente storica dello sviluppo umano, la distinzione tra ciò che è culturale, storico e sociale da ciò che è invece istintivo, naturale e biologico.

La sottovalutazione di ciò che appartiene allo sviluppo, storico, delle funzioni psichiche superiori, porta, di contro, ad una supervalutazione dei caratteri biologici fino al punto di tracciare insistiti, esaustivi e temerari parallelismi tra umanità e animalità. È questa, del resto, una caratteristica ideologica dominante nell’ambito culturale borghese, presente già nelle teorie del vitalismo, dei tropismi e poi, per altri versi, nelle classificazioni del soggettivismo freudiano, ecc. ecc..

Tale atteggiamento unilaterale, finisce poi, inevitabilmente, per avere riflessi rilevanti nell’impostazione della critica religiosa: astratta, “razionalistica”, che non tiene in debito conto le condizioni storico-sociali, le forme complesse della cultura e dell’ambiente ideologico. Sarò un lettore distratto, ma a me pare del tutto marginale, anzi assente, l’approfondimento dedicato dalla rivista l’Ateo ai temi storici, sociologici, politici, psicologici, senza i quali non si dà conto, tra l’altro, di come l’oppressione religiosa sia in gran parte il prodotto e il riflesso dell’oppressione economica e sociale.

Ecco perché considero la critica della religione, trattata come fenomeno unitario a se stante, mera contrapposizione tra ragione e fede, un esercizio in sé sterile e senza sbocco, con il rischio di aggiungere confusione, come per esempio nei dibattiti mediatici, in cui personaggi popolari e membri onorari dell’Uaar, con disinvoltura affermano che Gesù è da ritenersi uno dei più straordinari personaggi della storia, senza revocare in dubbio, almeno in ipotesi, tale asserita e solo presupposta storicità.

martedì 16 febbraio 2010

Fregnacce


Ieri ho ricevuto un commento al post che dava conto su un paio di frasi proferite da Margherita Hack. Il commento (si fa per dire) è stato assai conciso: «fregnacce».
La Hack sostiene che non è possibile dimostrarne l’inesistenza oppure l’esistenza di dio.
«Ogni limitazione della ragione o dell’essenza dell’uomo in genere si basa su un inganno, su un errore.
[…] se pensi l’infinito, pensi e confermi l’infinità della facoltà di pensare; se tu senti l’infinito , senti e confermi l’infinità della facoltà di sentire. L’oggetto della ragione è la ragione oggetto a se stessa, l’oggetto del sentimento è il sentimento oggetto a se stesso».
Eccetera , eccetera. Feuerbachianamente si potrebbe dire che ignorare Feuerbach è ignorare l’essenza stessa della critica religiosa. Infatti Feuerbach non nega dio, ma lo colloca nella dimensione dell'umana volontà di trascendenza, come proiezione.

«[…] un Dio impersonale non è un Dio […] egli non è nient’altro che l’essenza personale dell’uomo che si pone al di fuori di ogni legame con il mondo, che si rende libero da ogni dipendenza della natura. Nella personalità di dio l’uomo celebra la soprannaturalità, l’immortalità, l’indipendenza e la non limitatezza della sua personalità propria».
«Alla base dello sforzo di voler fondare la personalità di Dio tramite la natura sta una commistione disonesta, scellerata, di filosofia e religione, una mancanza completa di critica e di coscienza sull’origine del Dio personale».
Ludwig Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, ediz. integr., Ponte alle grazie, pp. 69, 71 e 154 (nell’ediz. Laterza: pp. 31, 33 e 115). I corsivi sono dell’Autore.


lunedì 15 febbraio 2010

Papabile


MILANO - C'è anche il Papa tra i «papabili» per l'assegnazione dell'edizione 2010 dei Classical Brit Awards, i riconoscimenti che la British Phonographic Industry assegna ogni anno ad artisti di vario livello per i successi ottenuti in campo discografico.
***
Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell'illusione religiosa. Guy Debord, 1967.

Radici cristiane


Il Timavo è un fiume carsico, sotterraneo per una quarantina di chilometri, scorre in superficie per un breve tratto, subito prima di sfociare a San Giovanni di Duino, nel Golfo di Trieste. Nella prima guerra mondiale il fiume, in quella zona, divideva il fronte italiano da quello austro-ungarico.
Il conflitto rivelò palesemente l’insufficiente abilità tecnica di tutte le più alte gerarchie militari, anche se vi era chi sosteneva trattarsi di «perfezione sotto il punto di vista artistico [sic] e tecnico». Fino alla tarda primavera del 1917, gli inutili assalti frontali di massa contro le mitragliatrici austriache o in difesa di posizioni impossibili e di nessun valore tattico, erano già costati la vita a mezzo milione di uomini, nella stragrande maggioranza contadini, operai, pastori, impiegati, piccoli commercianti, emigranti rientrati in patria [*]. Carne innominata.
Sul Timavo, alla fine di maggio, era attestato un battaglione del 77°rgt. “Lupi di Toscana”. Il comandante del battaglione era un certo maggiore Randaccio; il suo vice, un capitano dei Lancieri di Novara, noto letterato e rumoroso propagandista di guerra, ricoperto di onorificenze e medaglie senza aver mai combattuto realmente un solo giorno. Costui escogitò un piano geniale: passare sull’altra sponda del fiume, largo una trentina di metri e molto profondo, utilizzando una passerella di tavole larghe circa 40 centimetri poste sopra dei bidoni dell’olio vuoti, senza un tientibene o un cavo a cui aggrapparsi; quindi conquistare Quota 28, mentre un distaccamento avrebbe percorso circa due chilometri, su un terreno scoperto, fino al villaggio di Duino, arroccato sulle falesie, per poi issare un’enorme bandiera sui contrafforti del castello. I patrioti di Trieste, vedendo il tricolore garrire, ne avrebbero tratto alto giovamento morale, con grande scorno degli austro-ungarici. Salvo un particolare, che la città giuliana dista 20 chilometri dal castello e il bandierone non sarebbe stato comunque visibile.
A mezzanotte meno un quarto il capitano coraggioso viene svegliato dal sogno che lo vede alle prese con la sua amante triestina, una signora che ora risiede a Venezia con il marito compiacente. I soldati s’incamminano in fila verso il fiume, l’ufficiale letterato porta la bandiera, il suo pensiero affascinato va ai soldati che si bagnano là dove un tempo Castore e Polluce avevano abbeverato i loro cavalli immancabilmente bianchi. Un drappello di soldati sotto il fuoco d’infilata delle mitragliatrici nemiche riesce infine a raggiungere, non senza gravi perdite, la riva opposta e a salire sulla sommità della collina, della quale però non riescono ad assicurarsene il controllo.
Naturalmente il nostro letterato-eroe-alfiere si era tenuto ben al riparo, al di qua del fiume. Quando le truppe di rinforzo videro quello che le aspettava nella passerella, si ammutinarono. Anche i pochi intrepidi che sono riusciti a raggiungere la collina oltre il fiume, vistisi isolati, si stanno arrendendo. Il comandante del battaglione, Randaccio, data la situazione disperata, ordina la ritirata. Sul ponte di bidoni e tavole è una pioggia di proiettili, anche Randaccio viene mortalmente ferito. Il letterato-eroe fa poggiare la testa intrisa di sangue del comandante sopra la bandiera; le facce ostili dei superstiti lo inducono a chiedersi se quei “traditori” non gliela volessero far pagare sparandogli. Tuttavia corre alla batteria più vicina e ordina di aprire il fuoco sui soldati che sull’altra sponda si sono arresi. Qualche giorno più tardi, sempre sul Timavo, ottocento tra ufficiali e soldati della Brigata Puglia si consegneranno al nemico con armi ed equipaggiamenti.
Intanto il comandante Randaccio è agonizzante, seppur lucido, e prega il suo vice, il capitano D'Annunzio [**],  di dargli la capsula di veleno che porta sempre con sé. Lo chiede tre volte e per tre volte, biblicamente, gli viene rifiutata. Perché? D’Annunzio lo spiegò nella sua successiva orazione funebre: «Era necessario che soffrisse affinché la sua vita potesse diventare sublime nell’immortalità della morte».
Lo spunto per questo post è dovuto al libro di Mark Thompson, La guerra bianca, Il Saggiatore.
***
[*] «In che grado le classi abbienti e dirigenti abbiano in Italia sottratto i loro figli al duro e rischioso onere di fare la guerra in prima linea, quanto al poco patriottico e poco civico compito si siano prestati partiti e burocrazia, quale atteggiamento di fronte alla spinosa quistione abbia tenuto la stampa, è problema ancor troppo poco indagato, e forse ancor troppo delicato e intempestivo; ma pure di grande interesse  anche per la successiva storia d’Italia».  Chi scrive queste lapidarie e chiare parole è il capitano Piero Pieri, in un’importante e riconosciuta opera: La prima guerra mondiale, 1914-’18, Einaudi, 1947.
[**] Il padre di Gabriele si chiamava Francesco Paolo Rapagnetta, ma poi aggiunse  al suo anche il cognome dello zio Antonio D'Annunzio. Perciò il primo cognome anagrafico di Gabriele è Rapagnetta. Il miglior ritratto psicologico che ho letto su D'Annunzio è quello scritto da uno che lo conobbe molto bene, Francesco Saverio Nitti: Rivelazioni, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1948, da p. 289.

Il prete e Margherita


Nei giorni scorsi si è svolto un confronto pubblico tra Margherita Hack e il vescovo di Verona. Quest’ultimo ha lanciato la sfida sostenendo, niente meno ma da par suo, di poter dimostrare, secondo logica, l’esistenza di dio. Margherita ha avuto facile gioco nel ridicolizzare le tesi del prete, basate su congetture tutt’altro che sostenibili razionalmente. Tuttavia alla fine, a mio avviso, la Hack ha perso la partita. In questi casi la partita è già persa in partenza, quando si accetta di giocarla su un campo del tutto favorevole all’avversario e soprattutto se si segnano degli autogol clamorosi. Ed infatti Margherita ha detto:

1) che non è possibile dimostrare sul piano della ragione l’esistenza o meno di dio.

È questo un pseudoconcetto molto diffuso e in comune sostanzialmente con i preti più scaltri, che consacra il sottostante pregiudizio assoluto dell’impotenza umana a fronte delle ubbie del “mistero”. La razionalità che dissolve gli dèi si arrende alla trascendenza non appena si tratta di mettere insieme i fatti e la testa. Eppure sarebbe bastato un po’ di Feuerbach.

2) che Gesù è stato uno dei “personaggi più straordinari della storia”.

E qui il prete, in cuor suo, gongolava: di dio gl’importa poco, ma assai del marchio di fabbrica.

Due autogol tipici della nostra intellighenzia, cosicché il prete ha incassato la partita, portandosi a casa il pallone e lo scalpo della Hack.

domenica 14 febbraio 2010

«L’Occidente nasce dalla “psiche” greca»

 
«Che i greci abbiano dato un contributo essenziale per la creazione della mentalità dell’occidente è innegabile. La forma mentis creata dai greci, da cui è nata la filosofia e poi la scienza moderna, rappresenta davvero un unicum, che è estraneo ad altre culture.  Il concetto di psiche  inventato da Socrate e codificato da Platone è centrale a questo proposito: Socrate diceva che il compito dell’uomo è la cura dell’anima: la psicoterapia, potremmo dire. Che poi oggi l’anima venga interpretata in un altro senso, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non si pronunciava sull’immortalità dell’anima, perché non aveva ancora gli elementi per farlo, elementi che solo con Platone emergeranno. Ma, nonostante più di duemila anni, ancora oggi si pensa che l’essenza dell’uomo sia la psyche. Molti, sbagliando, ritengono che il concetto di anima sia una creazione cristiana: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il concetto di anima e di immortalità dell’anima è contrario alla dottrina cristiana, che parla invece di risurrezione dei corpi. Che poi i primi pensatori della Patristica abbiano utilizzato categorie filosofiche greche, e che quindi l’apparato concettuale del cristianesimo sia in parte ellenizzante, non deve far dimenticare che il concetto di psyche è una grandiosa creazione dei greci. L’Occidente viene da qui».

Intervista a Giovanni Reale sulle radici della cultura europea. Rapporto tra cristianesimo ed ellenismo. 

sabato 13 febbraio 2010

Reality


FRANCIA – Due lavoratori Telecom si sono tolti la vita, come in passato avevano fatto altri 38.

VINOVO (Torino) - Un giovane di 28 anni, E.V., è stato trovato impiccato questa mattina all'interno di un magazzino a Vinovo (Torino). La motivazione del gesto potrebbe essere legata al rischio di perdere il posto di lavoro, considerata la situazione critica in cui versava l'azienda in cui lavorava. Nei giorni scorsi, infatti, la ditta aveva inoltrato domanda di messa in mobilità dei nove dipendenti.

MADRID - Doveva essere una storia a lieto fine, invece si è trasformata in una terribile tragedia. Sta suscitando grandi polemiche in Spagna la notizia della condanna a sette anni di carcere di un uomo che ha violentato la figlia, ritrovata dopo quasi 40 anni grazie a un reality show.

CITTÀ DEL VATICANO – "La storia - ha proseguito il Papa - ha mostrato quanto possa essere pericoloso e deleterio uno Stato che proceda a legiferare su questioni che toccano la persona e la società, pretendendo di essere esso stesso fonte e principio dell'etica".

BERLINO – (AGI) Il presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker lancia l'allarme sulla deriva che rischiano di prendere alcune economie dell'Eurozona. "Dobbiamo stare attenti - dice Juncker al giornale Sueddeutsche Zeitung - che le attuali divergenze non si amplino. Un'unione monetaria non puo' durare a lungo se le attuali divergenze nei conti pubblici diventeranno troppo grandi".

CITTÀ DEL VATICANO – Vescovi europei a lezione da un pirata informatico. E' quello che accadrà nei prossimi giorni in Vaticano (la Repubblica). 


venerdì 12 febbraio 2010

Clero violento


«La curia di Bologna ci ha abbandonati»
di Cinzia Gubbini (il manifesto, 9-2-2010)
«Deplorazione» e «condanna». Le chiede - e le assicura - il Papa nei confronti dei preti che «violano i diritti dei minori». Ma nella pratica può accadere l'esatto contrario. Succede ad esempio a Ferrara dove quasi due anni fa un parroco che gestiva un asilo è stato condannato a sei anni e dieci mesi per aver commesso reiterati delitti di pedofilia su decine di piccole alunne. Ma da allora né dal parroco, né dalla curia di Bologna è mai arrivato nulla alle famiglie delle vittime: né dal punto di vista spirituale - per esempio, conforto - né da un punto di vista materiale. Eppure il prete (di cui non è mai stato reso noto il nome, come anche è rimasto anonimo il comune dell'alto ferrarese in cui avvennero i fatti, nel rispetto della privacy delle bambine) è stato condannato dal tribunale a pagare una provvisionale immediatamente esecutiva: un riconoscimento iniziale, in attesa del terzo grado di giudizio e, qualora fosse confermata la condanna, della causa civile per i risarcimenti. Per ora il prete dovrebbe versare alle famiglie circa 28 mila euro: si tratta di poco più di 3 mila euro a nucleo famigliare. Ma dal giorno della condanna il parroco non ha versato nulla. A quanto sembra non ha soldi sufficienti, cosa che può capitare nel caso di preti che vivono davvero soltanto del loro lavoro parrocchiale. Ci si aspetterebbe, però, che nello spirito di unità e fratellanza della Chiesa in un caso del genere siano i più alti in grado a intervenire. Che le alte sfere battano quanto meno un colpo. Macché, silenzio totale. Tanto da convincere uno degli avvocati di parte civile, Claudia Colombo, a prendere carta e penna e a scrivere al cardinale di Bologna Carlo Caffarra. Lo spunto viene da una recente inaugurazione di un asilo cattolico a Cento, paesino in provincia di Ferrara. In quell'occasione il cardinale ha ringraziato i genitori «per aver dimostrato tanta fiducia nei confronti della Chiesa affidandole i propri figli». «E' stato evidente il suo richiamo - scrive Colombo - alla Carta formativa della scuola cattolica dell'infanzia, di cui lei stesso è stato estensore e promotore nel settembre del 2009». Un documento, fa notare l'avvocato, in cui tra le altre cose si riconosce esplicitamente come «la scuola cattolica richieda una stretta connessione con la chiesa locale e con la diocesi». Insomma, ciò che accade in una scuola cattolica nel bene e nel male dovrebbe essere considerata una diretta responsabilità dal potere centrale: «Il meno che ci si sarebbe potuti attendere - continua Colombo - era un segno tangibile di partecipazione per il completo fallimento di quel patto». E' vero, riconosce l'avvocato, sul piano giudiziario non c'è da attendersi alcun intervento visto che la curia si era opposta «fieramente» alla chiamata in causa come parte civile e i suoi avvocati l'avevano avuta vinta. Ma è «sul piano pastorale che ha mancato a una obbligazione per lei ancora più cogente di quella strettamente giuridica».
 «Non sono abituata a questi gesti - spiega l'avvocato Colombo dal suo studio di Ferrara - ma in questo caso sento la necessità di aprire un dibattito: si tratta di fatti molto gravi e dolorosi, avvenuti in un contesto che dovrebbe essere di assoluta protezione, ma come è possibile che di fronte a un episodio così aberrante se il diretto responsabile non ha disponibilità economiche allora nessuno paga?». E non si tratta solo di soldi, come tiene a ribadire l'avvocato: alle famiglie non è arrivata neanche una lettera o un qualsiasi segno di scusa e vicinanza.
L'atteggiamento della curia di Bologna stupisce fino a un certo punto. Perché in tutta questa vicenda, che ha poco interessato le cronache nazionali, il comportamento della chiesa non ha brillato. I giudici non hanno mancato di sottolinearlo nella motivazione della sentenza, chiamando in causa il comportamento delle gerarchie ecclesiali: hanno fatto di tutto per mettere a tacere una vicenda di cui conoscevano precisamente i contorni. Tanto da parlare di «muro di gomma delle autorità ecclesiali». In particolare nel corso del processo è emerso il ruolo di monsignor Ernesto Vecchi, il «vice» di Caffarra, a cui si rivolse una delle educatrici per denunciare i comportamenti del prete. Per tutta risposta inveì contro di lei ricordandole che «ero pagata da loro», come ha testimoniato la donna in aula. Vecchi è ancora al suo posto.
Il parroco condannato non ha fatto un giorno di galera. La curia, almeno, potrebbe mettere mano al portafogli.