lunedì 15 febbraio 2010

Radici cristiane


Il Timavo è un fiume carsico, sotterraneo per una quarantina di chilometri, scorre in superficie per un breve tratto, subito prima di sfociare a San Giovanni di Duino, nel Golfo di Trieste. Nella prima guerra mondiale il fiume, in quella zona, divideva il fronte italiano da quello austro-ungarico.
Il conflitto rivelò palesemente l’insufficiente abilità tecnica di tutte le più alte gerarchie militari, anche se vi era chi sosteneva trattarsi di «perfezione sotto il punto di vista artistico [sic] e tecnico». Fino alla tarda primavera del 1917, gli inutili assalti frontali di massa contro le mitragliatrici austriache o in difesa di posizioni impossibili e di nessun valore tattico, erano già costati la vita a mezzo milione di uomini, nella stragrande maggioranza contadini, operai, pastori, impiegati, piccoli commercianti, emigranti rientrati in patria [*]. Carne innominata.
Sul Timavo, alla fine di maggio, era attestato un battaglione del 77°rgt. “Lupi di Toscana”. Il comandante del battaglione era un certo maggiore Randaccio; il suo vice, un capitano dei Lancieri di Novara, noto letterato e rumoroso propagandista di guerra, ricoperto di onorificenze e medaglie senza aver mai combattuto realmente un solo giorno. Costui escogitò un piano geniale: passare sull’altra sponda del fiume, largo una trentina di metri e molto profondo, utilizzando una passerella di tavole larghe circa 40 centimetri poste sopra dei bidoni dell’olio vuoti, senza un tientibene o un cavo a cui aggrapparsi; quindi conquistare Quota 28, mentre un distaccamento avrebbe percorso circa due chilometri, su un terreno scoperto, fino al villaggio di Duino, arroccato sulle falesie, per poi issare un’enorme bandiera sui contrafforti del castello. I patrioti di Trieste, vedendo il tricolore garrire, ne avrebbero tratto alto giovamento morale, con grande scorno degli austro-ungarici. Salvo un particolare, che la città giuliana dista 20 chilometri dal castello e il bandierone non sarebbe stato comunque visibile.
A mezzanotte meno un quarto il capitano coraggioso viene svegliato dal sogno che lo vede alle prese con la sua amante triestina, una signora che ora risiede a Venezia con il marito compiacente. I soldati s’incamminano in fila verso il fiume, l’ufficiale letterato porta la bandiera, il suo pensiero affascinato va ai soldati che si bagnano là dove un tempo Castore e Polluce avevano abbeverato i loro cavalli immancabilmente bianchi. Un drappello di soldati sotto il fuoco d’infilata delle mitragliatrici nemiche riesce infine a raggiungere, non senza gravi perdite, la riva opposta e a salire sulla sommità della collina, della quale però non riescono ad assicurarsene il controllo.
Naturalmente il nostro letterato-eroe-alfiere si era tenuto ben al riparo, al di qua del fiume. Quando le truppe di rinforzo videro quello che le aspettava nella passerella, si ammutinarono. Anche i pochi intrepidi che sono riusciti a raggiungere la collina oltre il fiume, vistisi isolati, si stanno arrendendo. Il comandante del battaglione, Randaccio, data la situazione disperata, ordina la ritirata. Sul ponte di bidoni e tavole è una pioggia di proiettili, anche Randaccio viene mortalmente ferito. Il letterato-eroe fa poggiare la testa intrisa di sangue del comandante sopra la bandiera; le facce ostili dei superstiti lo inducono a chiedersi se quei “traditori” non gliela volessero far pagare sparandogli. Tuttavia corre alla batteria più vicina e ordina di aprire il fuoco sui soldati che sull’altra sponda si sono arresi. Qualche giorno più tardi, sempre sul Timavo, ottocento tra ufficiali e soldati della Brigata Puglia si consegneranno al nemico con armi ed equipaggiamenti.
Intanto il comandante Randaccio è agonizzante, seppur lucido, e prega il suo vice, il capitano D'Annunzio [**],  di dargli la capsula di veleno che porta sempre con sé. Lo chiede tre volte e per tre volte, biblicamente, gli viene rifiutata. Perché? D’Annunzio lo spiegò nella sua successiva orazione funebre: «Era necessario che soffrisse affinché la sua vita potesse diventare sublime nell’immortalità della morte».
Lo spunto per questo post è dovuto al libro di Mark Thompson, La guerra bianca, Il Saggiatore.
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[*] «In che grado le classi abbienti e dirigenti abbiano in Italia sottratto i loro figli al duro e rischioso onere di fare la guerra in prima linea, quanto al poco patriottico e poco civico compito si siano prestati partiti e burocrazia, quale atteggiamento di fronte alla spinosa quistione abbia tenuto la stampa, è problema ancor troppo poco indagato, e forse ancor troppo delicato e intempestivo; ma pure di grande interesse  anche per la successiva storia d’Italia».  Chi scrive queste lapidarie e chiare parole è il capitano Piero Pieri, in un’importante e riconosciuta opera: La prima guerra mondiale, 1914-’18, Einaudi, 1947.
[**] Il padre di Gabriele si chiamava Francesco Paolo Rapagnetta, ma poi aggiunse  al suo anche il cognome dello zio Antonio D'Annunzio. Perciò il primo cognome anagrafico di Gabriele è Rapagnetta. Il miglior ritratto psicologico che ho letto su D'Annunzio è quello scritto da uno che lo conobbe molto bene, Francesco Saverio Nitti: Rivelazioni, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1948, da p. 289.

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