lunedì 14 giugno 2010

Un post lungo, palloso, su alcune cosucce sollevate da Simone Weil



Quando Marx prefigura una società comunista nella quale ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondo i propri bisogni (Critica al programma di Gotha, 1875), pone come premessa che ciò potrà avvenire solo “dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e manuale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita …”. Marx non sembra tener conto che vi sarà sempre chi da un lato esegue un lavoro e chi, dall’altro, lo organizza e coordina, e sembra lasciare in ombra, come evidenzia Simone Weil, “i principi generali del meccanismo mediante il quale una forma determinata di oppressione viene sostituita da un'altra”. La Weil avvertiva quindi un bisogno di assoluto che nella dialettica del sociale non può trovare realizzazione, ed infatti ella rivolgerà infine la sua attenzione alla fede religiosa.



In effetti, fin dagli scritti giovanili, Marx aveva posto in chiaro che:

[…] in tutte le rivoluzioni finora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone […].
Sempre nell’Ideologia tedesca, nel secondo capitolo, scrive:

Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico, e appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto […] sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi, e inoltre che ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo momento.

È sempre il rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento.

I germani di Tacito, oppure gli indigeni d’America raccontati da Lewis H. Morgan, vivevano in società dove la schiavitù non esisteva ancora; ma c’è appunto da chiedersi se nelle società complesse la schiavitù non sia determinata dal gioco stesso della vita collettiva, oppure se sia invece possibile una modulazione diversa dei rapporti sociali e delle forme dell’attività concreta, quindi del potere, contro la stessa « produzione della vita »,  come è stata fino ad ora, cioè il rovesciamento della base di tutto ciò che è costituito come « attività totale ».
Lenin aveva prospettato la grandiosa funzione della donna al potere affermando che bisognava insegnare ad "ogni cuoca sovietica" ad avere le capacità di governo dello stato dei Soviet. Le democrazie e in genere la storia dimostrano che non è necessaria alcuna competenza specifica per governare così come si è gestita finora la “cosa pubblica”, e gli esempi non mancano a tutte le latitudini.

Quale che sia la mediazione tra la teoria e la pratica, il comunismo novecentesco ci ha mostrato come un partito leninista sia adatto principalmente a un compito: impadronirsi del potere dello Stato, come conquista del potere politico. Il primo momento, di cui parla Marx, è poi diventato un tempo indefinito, e non poteva essere diversamente dato che non è mai stato toccato il tipo dell’attività (semmai solo una diversa e parziale allocazione dei proventi), e quindi si è trattato soltanto “di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro”. Ed infatti è il lavoro, nelle sue forme e cioè come rapporto sociale, che contiene la contraddizione principale e irrisolta.

Marx ebbe a precisare ulteriormente il suo pensiero su tale questione:
«Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna. Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato (Critica del programma di Gotha) ».

«In una fase più elevata della società comunista [successiva al socialismo come periodo intermedio tra la società capitalistica e il vero e proprio comunismo], dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni ! (ibidem)».

Pertanto l’obiettivo di Marx, tanto per dirla come la canta Eugenio Scalfari, non è l’egemonia (dittatura) dei salariati, ma il superamento della società classista e perciò del proletariato stesso. Il dissolvimento delle classi padronali è il dissolvimento stesso delle classi degli sfruttati; cessando l’una, cade l’altra. Marx non ha però a disposizione, né potrebbe avere, gli elementi necessari per raccontarci, in dettaglio, come sarà risolto il problema della scomparsa della “subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro” e “quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico”.

[Per ulteriori riferimenti: lettera di Engels a Philip Van Patten del 18 aprile 1883 ed a Eduard Bernstein del 1 gennaio 1884].

Dove invece non si può essere assolutamente d’accordo con la Weil, è quando essa sostiene che la lotta, intesa come conquista di migliori condizioni, finisce per essere un’aggravante del male perché costringe i padroni a far pesare il loro potere in modo sempre più greve. Se così fosse, la condizione operaia nelle fabbriche europee potrebbe essere analoga a quella dell’industria cinese e così via.

Non esisterà mai la società perfetta, priva di contraddizioni e di conflitto. Ogni rapporto, appunto perché tale, contiene in sé delle contraddizioni. Questo non significa che non sia possibile stabilire condizioni sociali e di vita, in generale, diverse e migliori delle attuali. Come ho scritto in un precedente post, non vi è nessuna necessità dei monopoli economici, della privatizzazione e sfruttamento dissennato delle risorse, della finanza “creativa”, di un modo di produrre, distribuire e consumare secondo il mero criterio capitalistico.

Allo stesso modo è irrealistico pensare di tornare ad un tipo di economia di tipo “tradizionale”, laddove ognuno coltiva il proprio orticello. Per millenni la Cina (per citarne l’esempio) ha avuto problemi alimentari gravi, di fame endemica. Si è detto che ciò era in dipendenza del fatto che c’erano troppe bocche per troppo poco cibo. Sicuramente il cibo era poco, ma era anche troppo per alcune bocche e, conseguentemente e ulteriormente, troppo poco per molte altre. Ma anche in presenza di una diversa e più equa distribuzione la Cina non avrebbe risolto i propri problemi alimentari, poiché troppo miserabile e poco progredita era la sua struttura produttiva. La Cina ha risolto i problemi alimentari più gravi solo con l’industrializzazione, segnatamente della sua agricoltura. E ciò che è stato per la Cina, vale per tutti gli altri paesi.

Nessun commento:

Posta un commento