mercoledì 1 settembre 2010

Scuse per fare affari, il gioco di prestigio di Berlusconi


di Stefano Liberti

Quattro visite di Gheddafi in Italia in poco più di un anno. Il «Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato» sembra avere aperto una nuova era nelle relazioni tra i due paesi. Presentato a Tripoli come una compensazione per i crimini del colonialismo e rivendicato in quanto tale in buona parte dei discorsi pubblici del Colonello, veicolato invece presso un'opinione pubblica italiana poco interessata alla storia come un viatico per avere «più petrolio e meno clandestini», quel testo è figlio di esigenze complementari: quella di Gheddafi di ottenere un riconoscimento che ha richiesto dal giorno in cui è arrivato al potere, il 1° settembre del 1969, e che gli aveva sempre impedito di venire in visita in Italia; quella del nostro paese, che osservava con occhi bramosi fin dalla fine dell'embargo nel 2004 (e per la verità anche prima) le potenzialità della Libia, stato ricco di liquidità ma carente di infrastrutture e di know how.
Da questo punto di vista, il «trattato di Bengasi» è un capolavoro politico. In esso l'Italia esprime «il proprio rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana» e stabilisce un indennizzo pari a 5 miliardi di dollari su 20 anni, da utilizzare per la costruzione di opere infrastrutturali. Ma questa somma gigantesca ha un vincolo non da poco: i progetti dovranno essere realizzati da aziende italiane. Tanto che, a scanso di equivoci, «i fondi verranno gestiti dalla parte italiana».
A coronamento di questa grande partita di giro, con cui l'Italia si assicura la penetrazione prioritaria nel mercato libico formulando le scuse richieste da Gheddafi, la copertura finanziaria dei 5 miliardi è assicurata dall'aumento dell'Ires (imposta sul reddito delle società ) da attribuire all'Eni, che in cambio si garantisce nuovi appalti e commesse miliardarie. A ben guardare, nessuno paga e tutti ci guadagnano.

L'insistenza sulla lotta all'immigrazione clandestina è collaterale rispetto al nucleo reale del Trattato, che sono per l'appunto gli affari. Nel testo si stabilisce che «le due Parti intensificano la collaborazione in atto nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all'immigrazione clandestina». E, en passant, la stessa lotta all'immigrazione irregolare viene trasformata in business per le nostre aziende, là dove si stabilisce la realizzazione di un faraonico «sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche». Una commessa da 300 milioni di euro assegnata alla Selex, consociata da Finmeccanica, che verrà anch'essa pagata dall'aumento dell'Ires imposto all'Eni.

La politica dei respingimenti, inaugurata nel maggio 2009, non è contemplata nel Trattato. Anche se è ovviamente figlia della rinnovata cooperazione tra le due sponde. La Libia ormai accetta tutti gli immigrati intercettati nei barconi. A volte li chiude nei centri e li espone a maltrattamenti, come ha mostrato il caso dei 205 cittadini eritrei rinchiusi a fine giugno per 16 giorni nel campo di Braq in mezzo al Sahara. A volte li lascia liberi di circolare, con permessi di residenza un po' precari. Certo, mai riconoscerà il loro status di rifugiati in fuga da paesi autoritari. Perché la Libia mai firmerà quella Convenzione di Ginevra che l'Italia viola sistematicamente proprio nel momento in cui rinvia i barconi verso la sponda sud.
Ma gli affari sono affari. E la lotta all'immigrazione - del tutto prestestuosa, perché a Lampedusa arrivava una percentuale del tutto trascurabile dei cosiddetti clandestini - è il modo migliore per far ingoiare a parti di opinione pubblica e alla Lega nord gli abbracci e i baciamano con il «leader». Con buona pace di quei richiedenti asilo che rimarranno in balia degli arbitri libici e mai vedranno riconosciuta la loro legittima richiesta di protezione internazionale.
il manifesto, 31 agosto 2010

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