domenica 17 ottobre 2010

Le basi sociali del conflitto di classe



Gad Lerner scrive su Repubblica un articolo preoccupato, nella veste non isolita di pompiere. È preoccupato per due motivi: perché l’atteggiamento di Marchionne e della Confindustria può produrre un pericoloso antagonismo operaio (ancor prima che un problema sindacale). Egli denuncia quindi l’avidità padronale e la miopia della classe dirigente, auspicando una maggiore moderazione e ragionevolezza. Lerner ha ben presente che “Da trent'anni una distribuzione squilibrata del reddito – che a differenza da altri paesi neppure la fiscalità e il welfare riescono a correggere – provoca un'imponente decurtazione della quota di ricchezza nazionale destinata alle buste paga”. Naturalmente tale consapevolezza, in senso meramente riformistico, richiederebbe una spiegazione nei termini di quella che un tempo lo stesso Lerner chiamava “analisi di classe”, ovvero l’analisi delle basi sociali di questa democrazia. Se si esenta il Vaticano dalle tasse e le si aumenta ai salariati, se oltre l'80 del gettito Irpef è dei lavoratori dipendenti, se si comprano armi e si tagliano risorse all'università e alla scuola [*], un qualche motivo ci sarà!
Egli sa bene che la situazione sociale si è deteriorata, che per continuare a metterlo in culo ai salariati ci vuole astuzia. Né, del resto, esiste una classe dirigente omogenea (mai data in Italia), coesa, attiva, basata sopra gruppi di forze reali sane e capaci di sviluppo;  da noi prevalgono le classi corrotte, di rentiers, i gruppi industriali con base familiare, l'evasione fiscale di massa, gli alti burocrati e pescecani dell'appalto pubblico, le vecchie consorterie clientelari nel Mezzogiorno che esercitando un dominio di carattere feudale. Si persegue il noto gattopardesco obiettivo: “sopire le tensioni” per meglio poter “fronteggiare la gestione della crisi economica”, cioè calmare le acque della protesta sociale perché tutto continui come prima e a vantaggio dei soliti. E per far questo ci vuole il sostegno politico della "sinistra", dice in sostanza Lerner. E infatti lo stato comatoso della "sinistra", il distacco abissale dagli interessi dei salariati ormai incolmabile, rappresenta l’altro suo motivo di allarme:
Il Partito Democratico soffre più di chiunque altro questa divisione sindacale e paga il prezzo di non aver saputo delineare un suo impegno politico diretto nel mondo del lavoro, influenzando anche le dinamiche interne alle tre confederazioni.
[…] La verità è che l'intera classe politica del centrosinistra, qualunque sia la sua matrice culturale, si è macchiata di un'inadempienza storica. Rescisso il legame esistenziale con gli operai, interrotto il circuito virtuoso per cui la rappresentanza delle classi subalterne si tramutava anche in leadership espresse direttamente dal mondo del lavoro, non ha allontanato solo il suo tenore di vita e la sua sensibilità dal popolo delle formiche. La classe dirigente del centrosinistra si è autoconvinta che un'adesione acritica alla cultura neo-liberale fosse il requisito indispensabile per candidarsi al governo del paese, supportata dal consenso di un establishment che nel frattempo si arricchiva spogliando risorse, anziché promuovere lo sviluppo.
Insomma, il padronato è miope se vuole andare allo scontro aperto e peraltro senza l’attivo sostegno delle forze della “sinistra” istituzionale che sempre hanno garantito la moderazione e l’inganno; ma anche la "sinistra" si deve dare una mossa su tale fronte se vuole essere ancora funzionale al sistema. Discorso che ha una sua logica, ovviamente, ma che non tiene conto della radicalità della crisi e dello scontro sociale in atto e di quello che verrà, del dispiegarsi e inasprirsi dei conflitti commerciali e geopolitici entro i quali l’Italia e il suo apparato produttivo possono solo adeguarsi. Un discorso, quello di Lerner, che sembra non tener conto che nel prossimo decennio saremo ad una svolta decisiva.

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