giovedì 28 ottobre 2010

Il bluff



La fine dello spettro della penuria alimentare e la promessa dell’abbondanza, entro certi limiti e secondo determinate modalità, è stata realizzata nella società industriale soprattutto nella seconda metà del XX secolo. Si tratta di avere ben presenti tali limiti sia geografici che sociali, poiché la fame nuda e cruda e la denutrizione riguardano ancora più di un miliardo di esseri umani. Un discorso a parte meriterebbe anche la qualità di tale abbondanza.
Naturalmente, come c’era da aspettarsi, la realizzazione di tale promessa, sia pure parziale e delimitata, non è stata né spontanea e nemmeno priva di costi. Ma soprattutto essa rischia di non poter durare nel tempo, non solo a causa dell’insostenibilità del cosiddetto welfare, cioè del debito statale, ma soprattutto dell’insostenibilità dello sfruttamento della natura ai ritmi e nelle modalità attuali, nonostante  i più diversi palliativi della più moderna (e redditizia) industria “verde”.
Sulla insostenibilità finanziaria dell’intervento statale, cioè del deficit mostruoso raggiunto dai principali paesi, sviluppati e no, c’è da osservare preliminarmente e sostanzialmente che essa dipende in gran parte dalla natura stessa di un’economia di mercato laddove la distribuzione della ricchezza segue logiche tipiche del profitto e dell’accumulazione, cioè di un sistema basato sulla privatizzazione di una quota preponderante della ricchezza socialmente prodotta. In tal senso le politiche fiscali messe in atto dagli Stati non possono essere che dei meri palliativi per tentare di tenersi a galla, anche perché a decidere, in ultima analisi, di tali politiche sono pur sempre dei rappresentanti agli ordini dell’aristocrazia del denaro.
Appare sempre più evidente, specie con l’inasprirsi del ciclo economico, che il capitalismo, dopo aver favorito il trionfo di una numerosa classe media metropolitana utile in chiave politica interna e geostrategica, è ora deciso a muoversi secondo orientamenti diversi, dettando nuove parole d’ordine che i professionisti della propaganda crisaiola s’incaricano di divulgare.
Insomma, la pretesa del capitalismo di aver felicemente risolto i conflitti e le “aporie” esistenti con uno sviluppo lineare ed infinito delle forze produttive, si rivela ogni giorno di più, perfino agli occhi dei suoi più convinti e solerti sostenitori d’un tempo, come un bluff. Essi devono ammettere che persino la possibilità di bere, ora in alcune aree del mondo, in un prossimo futuro anche nelle metropoli, risulterà assai problematica, così come è già difficile dormire senza sonniferi e lavarsi o nutrirsi senza soffrire di troppe allergie o morire di cancro.
Per quanto riguarda infine coloro che, rendendosi conto della situazione e in parte delle prospettive ma non della natura meno apparente delle contraddizioni che generano tale stato di cose, vagheggiano un più o meno romantico ritorno all’idiozia della vita rurale di un tempo, c’è da osservare che tale atteggiamento, che non sa andare oltre la classica contrapposizione tra città e campagna (tra industrialismo e robinsonate), è tipico delle epoche di crisi e della piccola e grande borghesia reazionaria.

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