martedì 17 maggio 2011

Come fu inventato il popolo ebraico/1


di Shlomo Sand *  (da Le Monde Diplomatique/il manifesto del settembre 2008, p. 3).

Gli ebrei sono un popolo? Vecchio quesito, al quale uno storico israeliano dà una risposta nuova. Contrariamente a idee preconcette, la diaspora non nacque dalla cacciata degli ebrei dalla Palestina, ma da successive migrazioni nell’Africa del nord, nell’Europa meridionale e nel Vicino Oriente. Un’idea che fa vacillare uno dei fondamenti del pensiero sionista; secondo il quale gli ebrei sarebbero i discendenti del regno di Davide e non – che Dio non voglia! – gli eredi di guerrieri berberi o di cavalieri khazaki.

Ogni israeliano sa, senza alcun dubbio, che il popolo ebraico esiste da quando ha ricevuto la Torah (1) nel Sinai, e che ne è il discendente diretto ed esclusivo. È convinto che questo popolo, espulso dall’Egitto, si è insediato nella «terra promessa», dove fu edificato il glorioso regno di Davide e di Salomone, suddiviso in seguito nei regni di Giuda e di Israele e che gli ebrei sono stati esiliati due volte: dopo la distruzione del primo tempio, nel VI secolo prima di Cristo, e, in seguito a quella del secondo tempio, nell’anno 70 dopo Cristo.

Seguì poi una peregrinazione di quasi due mila anni: anche se le sue tribolazioni lo portarono nello Yemen, in Marocco, in Spagna, in Germania, in Polonia e perfino nella profonda Russia, il popolo ebraico è sempre riuscito a preservare i legami di sangue tra le lontane comunità, in modo tale che la sua unicità non ha subito alterazioni. Alla fine del XIX secolo, erano mature le condizioni del suo rientro nell’antica patria. Senza il genocidio nazista, milioni di ebrei avrebbero ripopolato naturalmente Eretz Israel («la terra di Israele»), il loro sogno da venti secoli.

La Palestina, terra vergine, aspettava che il suo popolo arrivasse a farla rifiorire. Infatti questa terra apparteneva al popolo ebraico e non a quella minoranza araba, priva di storia, giunta là per caso. Quindi legittime erano le guerre condotte da quel popolo errante per riprendersi la sua terra, e criminale l’opposizione violenta della popolazione locale.

Dove nasce questa interpretazione della storia ebraica? Essa è l’opera, a partire dalla seconda meta del XIX secolo, di valenti ricostruttori del passato, la cui fertile fantasia ha inventato, sulla base di brani di memoria religiosa, ebraica e cristiana, una concatenazione genealogica ininterrotta per il popolo ebraico. Certo, la ricca storiografia del giudaismo offre una pluralità di approcci. Ma le polemiche al suo interno non hanno mai rimesso in questione le idee essenzialistiche elaborate soprattutto alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX.

Quando apparivano scoperte che rischiavano di contraddire l’immagine di quel passato lineare, esse non avevano praticamente alcuna risonanza. Come una morsa solidamente chiusa, l’imperativo nazionale bloccava ogni tipo di contraddizione e di deviazione dal racconto dominante. Le istanze specifiche di produzione della conoscenza del passato ebraico – i dipartimenti dedicati in modo esclusivo alla «storia del popolo ebraico», separati dai dipartimenti di storia (chiamata in Israele «storia generale») – hanno ampiamente contribuito a questa curiosa emiplegia. Persino il dibattito, di carattere giuridico, sul punto «Chi è ebreo?» non ha destato la preoccupazione degli storici per i quali è ebreo ogni discendente del popolo costretto all’esilio duemila anni fa.

Questi ricercatori «autorizzati» del passato non hanno neppure partecipato alla controversia dei «nuovi storici», aperta alla fine degli anni ’80. La maggior parte dei protagonisti di questo dibattito pubblico – in numero limitato – apparteneva ad altre discipline o a orizzonti extra-universitari: sociologi, orientalisti, linguisti, geografi, specialisti in scienza politica, ricercatori in letteratura, archeologi elaborarono riflessioni nuove sul passato ebraico e sionista. Tra di loro c’erano anche ricercatori venuti dall’estero. In compenso, dai «dipartimenti di storia ebraica», giunsero soltanto echi timidi e conservatori, rivestiti di una retorica apologetica a base di idee preconcette.

Il giudaismo, religione di proselitismo

Insomma, in sessant’anni, la storia nazionale è maturata pochissimo, e verosimilmente non evolverà nel breve periodo. Eppure, i fatti venuti alla luce con le nuove ricerche pongono a ogni onesto storico quesiti sorprendenti di primo acchito, ma nondimeno fondamentali.

Si può considerare la Bibbia come un libro di storia? I primi storici ebrei moderni, come Isaak Markus Jost o Leopold Zunz, nella prima metà del XIX secolo, non la percepivano come tale: ai loro occhi, l’Antico Testamento si presentava come un libro di teologia costitutivo delle comunità religiose ebraiche dopo la distruzione del primo tempio. Si è dovuto aspettare la seconda metà di questo stesso secolo per incontrare storici, in primo luogo Heinrich Graetz, portatori di una visione «nazionale» della Bibbia: essi hanno trasformato la partenza di Abramo per Canaan, l’espulsione dall’Egitto oppure il regno unificato di Davide e Salomone in racconti di un passato autenticamente nazionale. Da allora, gli storici sionisti non hanno smesso di reiterare queste «verità bibliche», diventate pane quotidiano dell’educazione nazionale.

Ma, negli anni ’80, un terremoto fa vacillare questi miti fondatori. Le scoperte della «nuova archeologia» contraddicono la possibilità di un grande esodo nel XIII secolo prima della nostra era. E Mosè non ha potuto condurre gli ebrei fuori dall’Egitto verso la «terra promessa», per la semplice ragione che, in quel tempo, la terra promessa era in mano agli egiziani. Del resto non si trova traccia di una rivolta di schiavi nell’impero dei faraoni, né di una veloce conquista del paese di Canaan ad opera di un elemento straniero.

Né esiste segno o ricordo dello sfarzoso regno di Davide e di Salomone. Le scoperte del decennio scorso attestano l’esistenza, in quel tempo, di due piccoli regni: Israele, il più potente e Giuda, la futura Giudea. Neanche gli abitanti della Giudea subirono un esilio nel VI secolo a.C.: solo le sue élite politiche e intellettuali dovettero insediarsi a Babilonia. Da questo incontro decisivo con i culti persiani sarebbe nato il monoteismo ebraico.

L’esilio dell’anno 70 d.C. si è davvero verificato? Paradossalmente, questo «evento fondatore» nella storia degli ebrei, da cui trae origine la diaspora, non è stato oggetto di alcun lavoro di ricerca. Questo, per una ragione molto banale: i romani non hanno mai esiliato alcun popolo in tutta la sponda orientale del Mediterraneo. Ad eccezione dei prigionieri ridotti in schiavitù, gli abitanti della Giudea continuarono a vivere sulle loro terre, persino dopo la distruzione del secondo tempio.

Parte di essi si convertirono al cristianesimo nel IV secolo, mentre la grande maggioranza aderì all’islam nel corso della conquista araba del VII secolo. Quasi tutti gli intellettuali sionisti lo sapevano perfettamente: Yitzhak Ben Zvi, il futuro presidente dello Stato di Israele, così come Ben Gourion, fondatore dello Stato, lo hanno scritto fino al 1929, anno della grande rivolta palestinese. Entrambi menzionano a più riprese il fatto che i contadini della Palestina sono i discendenti degli abitanti dell’antica Giudea (2)

* Storico, docente all’università di Tel Aviv, autore di Comment le peuple juif fut inventé, Fayard 2008. Quando questo lavoro accademico è uscito è rimasto per 19 settimane nella classifica dei best-sellers israeliani. Tradotto in tutte le principali lingue del mondo, in italiano nel 2010 per Rizzoli.

(1) Testo fondatore del giudaismo, la Torah – la radice ebraica yara, significa insegnare – comprende i primi cinque libri della Bibbia, o Pentateuco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio.
(2) Cfr. David Ben Gourion e Yitzhak Ben Svi, Eretz Israël dans le passé et dans le présent (1918, in yiddish), Gerusalemme, 1980 (in ebraico) e Ben Zvi, Notre population dans le pays (in ebraico), Varsavia,Comité exécutif de l’Union de la jeunesse e Fonds national juif, 1929.
 

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