giovedì 22 dicembre 2011

Che razza di populismo


L’amico Luca mi segnala in un commento del post precedente, quello delle chiacchiere sul futuro del capitalismo, un post di Alessandro Giglioli sul ruolo delle banche. Il bravo Gilioli esordisce così: Quando si dice che ormai «governano le banche» si dice sicuramente una frase superficiale e populista.

Il blogger di Piovono rane scrive la frase in senso ironico. Forse. Che governino le banche e i loro succedanei, del resto, mi pare evidente. Ma non vorrei insistere con frasi superficiali e populiste. Perciò propongo la lettura dell’articolo che segue.

Che razza di populismo

di Marco d'Eramo, il manifesto 16-12-2011

Non se ne può più della sufficienza con cui i commentatori di tutte le sponde declinano i termini «populismo» e «populista». Cominciamo col dire che nessuno definisce se stesso populista: è un epiteto che ti affibbiano i tuoi nemici politici (un po' come nessuno si autodefinisce terrorista, ma è chiamato così solo dagli avversari o quando è stato sconfitto: algerini, vietnamiti e fondatori dello stato d'Israele non furono ricordati come terroristi perché le loro guerre le vinsero). In secondo luogo, populista ha non solo lo stesso significato, ma anche lo stesso etimo di demagogico, termine che non a caso fu coniato nell'antichità dalle fazioni aristocratiche e senatoriali in spregio alla plebe.

In effetti i nostri opinionisti ostentano nel pronunciare la vituperata parola un ludibrio venato di degnazione, neanche fossero tutti elencati nell'almanacco di Gotha, marchesi di Carabas timorosi d'infettarsi a contatto con il volgo (da cui la parola volgare). Però farebbero bene costoro a rileggersi quello straordinario libretto che il grande storico Jules Michelet scrisse due anni prima del maremoto rivoluzionario che avrebbe scosso l'Europa nel 1848, e che appunto s'intitolava Le peuple di cui intonava un romantico peana. Ma nel 2011 un Michelet subirebbe ostracismo immediato. Oggi essere bollati come populisti significa dannarsi all'inferno politico.

Il problema è che i cantori del capitale (come un tempo i giullari dell'aristocrazia) tendono a tacciare di populista qualunque aspirazione popolare. Vuoi la sanità per tutti? Sei proprio un populista (soprattutto negli Stati uniti). Vuoi la tua pensione indicizzata sull'inflazione? Ma che razza di populista! Vuoi poter mandare i tuoi figli all'università senza svenarti? Lo sapevo che sotto sotto eri un populista!
Quando ti appiccicano quest'etichetta addosso non riesci più a staccartela, hai voglia a dire che tu stai esprimendo solo sacrosante aspirazioni popolari. E il marchio è tanto più efficace e indelebile che ci sono davvero dei populisti demagogici e strumentali, per cui tu non vieni semplicemente distorto, vieni appiattito su qualcosa che esiste davvero. È vero che la Lega è cinica e demagogica, ma non ha torto quando dice che il nuovo trattato europeo è scritto in tedesco.

Il problema è sempre lo stesso. Non è perché Hitler mangiava che io devo morire d'inedia. Più in generale, è una lunga storia quella dei populismi del XX secolo che - non a caso - sono fioriti quando le aspirazioni popolari sono state disattese, anzi represse. Non per errore i nazismi e i fascismi nascevano da socialismi deviati, dirottati su linguaggi nazionalisti. Ma non sempre ha prevalso il «vade retro vulgus!». Vi è stata un'epoca in cui il populismo era di sinistra, anche negli Stati uniti, prima che Ronald Reagan inaugurasse la grande stagione del populismo di destra.

Ecco cosa scriveva due mesi fa non un pericoloso estremista, ma l'ex ministro del lavoro di un presidente moderato come Bill Clinton, Robert Reich, in un articolo tradotto sul manifesto: «Nei primi decenni del XX secolo i democratici non ebbero difficoltà ad abbracciare il populismo economico. Accusavano le grandi concentrazioni industriali di soffocare l'economia e avvelenare la democrazia. Nella campagna del 1912 Woodrow Wilson promise di guidare 'una crociata contro i poteri che ci hanno governato ... hanno limitato il nostro sviluppo... hanno determinato le nostre vite ... ci hanno infilato una camicia di forza a loro piacimento'. La lotta per spaccare i trusts sarebbe stata, nelle parole di Wilson, niente meno che 'una seconda lotta di liberazione'. Wilson fu all'altezza delle sue parole: firmò il Clayton Antitrust Act (che non solo rafforzò le leggi antitrust ma esentò i sindacati dalla loro applicazione), varò la Federal Trade Commission per sradicare "pratiche e azioni scorrette nel commercio" e creò la prima tassa nazionale sui redditi. Anni dopo Franklin D. Roosevelt attaccò il potere finanziario e delle corporations dando ai lavoratori il diritto di sindacalizzarsi, la settimana di 40 ore, il sussidio di disoccupazione e la Social Security (la mutua). Non solo, ma istituì un'alta aliquota di tassazione sui ricchi Non stupisce che Wall street e la grande impresa lo attaccassero. Nella campagna del 1936 Roosevelt mise in guardia contro i 'monarchici dell'economia' che avevano ridotto l'intera società al proprio servizio: "Le ore che uomini e donne lavoravano, i salari che ricevevano, le condizioni del loro lavoro ... tutto era sfuggito al controllo del popolo ed era imposto da questa nuova dittatura industriale". In gioco, tuonava Roosevelt, era niente meno che "la sopravvivenza della democrazia". Disse al popolo americano che la finanza e la grande industria erano determinati a scalzarlo: "Mai prima d'ora in tutta la nostra storia, queste forze sono state così unite contro un candidato come oggi. Sono unanimi e concordi nell'odiarmi e io accolgo volentieri il loro odio"».

A ragione questo linguaggio sarebbe oggi definito «populista». Ma quanto ci piacerebbe sentirlo di nuovo da un leader della (cosiddetta) sinistra!


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