mercoledì 18 gennaio 2012

Gli illusionisti del libero mercato



Gli illusionisti del libero mercato non ci fanno mancare nulla. Ieri sera in Tv un sottosegretario all’economia (ma quanto lavora ‘sta gente!) sosteneva papale: la crescita non c’è perché non ci sono state le liberalizzazioni. Di rincalzo partiva un servizio dalla Crande Germania dove le liberalizzazioni invece sarebbero state fatte, a cominciare dal taglio degli stipendi nel settore pubblico (ci si prepari). Quindi l’economista di chiara fama, già Bce e ora insegnante in un “prestigioso” istituto immancabilmente privato inglese, retoricamente si chiedeva: non si capisce di cosa viva la Grecia.

Se cazzeggio dev’essere, ebbene cazzeggio sia. Comincio dalla Grecia: fino all’entrata nell’euro di cosa sono vissuti i greci, compresi quelli che non lavorano mai e hanno studiato nei prestigiosi istituti privati inglesi? A giugno del 2010, di ritorno da una scampagnata in quella penisola, scrivevo: “Ad una signora greca, in una cittadina costiera, ho chiesto dove fossero le loro botteghe artigiane. Le hanno chiuse, importano”. La Grecia importa tutto, perfino l’olio d’oliva e il pesce. È l’effetto delle liberalizzazioni, poiché liberalizzazioni significa anzitutto liberalizzare i capitali, dove è noto che il pesce più grosso ingoia quello più piccolo (*).

Qualche nuovo lettore del blog forse (forse) si stupirà, ma quasi due anni fa scrivevo questo post dove, cifre alla mano, dimostravo analiticamente il programma di riarmo della Grecia, in piena crisi, a vantaggio dell’industria soprattutto tedesca. C’è voluto del tempo ma qualche timida notizia in proposito sta uscendo oggi anche sulla stampa.

Cosa c’è di più normale del fatto, che ognuno di noi può constatare ogni giorno, che l’emigrazione all’estero della nostra industria toglie posti di lavoro e ricchezza? Le lampadine si producono in Slovenia, le calze e le auto in Serbia e Polonia, l’abbigliamento (quello che non viene prodotto in nero nei laboratori cinesi) lo fabbricano in Romania, i trattori in India, la carta igienica in Brasile e perfino le caffettiere le facciamo in Cina. Tanto per dire. Possibile che nessuno in quello studio televisivo abbia avuto l’onestà di ricordarlo al sottosegretario? Appena ieri scrivevo: Questa gentaglia è schierata a fianco e a difesa del capitale, è nemica dell’umanità sfruttata quanto il capitale.

Non è un modo di dire, è realtà quotidiana. Le parole degli illusionisti, i troppi “fatti” falsamente correlati e vagliati dagli specialisti dell’intossicazione mediatica, distraggono l’attenzione e sovrastano la percezione dei nessi sociali reali. La censura in passato significava bandire, proibire, togliere, distruggere, nascondere; oggi invece, senza cercare tante parole per definirla, la censura è diventata un gran lavoro d’instupidimento il cui rating è confermato dall’auditel.

(*) Scriveva Lenin nel 1916: Allorché Marx, mezzo secolo fa, scriveva il Capitale, la grande maggioranza degli economisti considerava la libertà di commercio una "legge naturale". La scienza ufficiale ha tentato di seppellire con la congiura del silenzio l'opera di Marx, che, mediante l'analisi teorica e storica del capitalismo, ha dimostrato come la libera concorrenza determini la concentrazione della produzione, e come questa, a sua volta, a un certo grado di sviluppo, conduca al monopolio. Oggi il monopolio è una realtà. Gli economisti scrivono montagne di libri per descrivere le diverse manifestazioni del monopolio e nondimeno proclamano in coro che il "marxismo è confutato". Ma i fatti sono ostinati – dicono gli inglesi – e con essi, volere o no, si debbono fare i conti. I fatti provano che le differenze tra i singoli paesi capitalistici, per esempio in rapporto al protezionismo e alla libertà degli scambi, determinano soltanto differenze non essenziali nelle forme del monopolio, o nel momento in cui appare, ma il sorgere dei monopoli, per effetto del processo di concentrazione, è, in linea generale, legge universale e fondamentale dell'odierno stadio di sviluppo del capitalismo.

3 commenti:

  1. Tutto vero ciò che scrive. Eppure, quello che più mi fa paura è il ritorno alla piccola realtà, l'elogio delle PMI, il ritorno al localismo, all'etica(??), insomma, l'illusione di certi di potersi creare delle nicchie extracapitalistiche dentro il capitale: un'utopia impossibile. Nell’epoca della globalizzazione dell’economia e dello strapotere del capitale finanziario, cioè del capitalismo imperialista, alcuni non trovano ridicolo parlare di "autoproduzioni alimentari" (la pasta fatta in casa, scorciatoia per il comunismo?) artigianali e culturali, di "banche" etiche o di mutuo soccorso, di commercio "equo e solidale". Si scordano, i signori, che questa era l’utopia di tanti piccoli artigiani sulla via della proletarizzazione nella prima metà del secolo scorso: una società di piccoli produttori, di piccolo commercio, di poco denaro, come se il capitalismo non fosse nato proprio da lì.

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  2. Mi segnala da quale opera è tratto il brano di Lenin?
    Grazie.

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