domenica 19 febbraio 2012

Linee strategiche dell'imperialismo Usa


Le linee di faglia su cui si concentra ora la contesa tra occidente e oriente (il confronto tra la visione strategica di Washington e quella di Pechino) riguardano lo stretto di Hormuz, gli stretti di Malacca (decisivi come sappiamo per gli approvvigionamenti energetici della Cina) e più in generale tutti i gangli vitali dei “liberi flussi di merci trasportabili per aria o per mare” (*). La scacchiera è il globo intero, i giocatori sono gli Usa, la Cina e la Russia, mentre l’Europa, il Giappone, l’India, l'Indonesia, il Brasile, la Turchia, l’Australia fungono da torri, cavalli e alfieri della partita.

In tale quadro l’Italia è un pedone strategico del processo di ristrutturazione politica, fiscale ed economica in atto in Europa e del quale ha dato ragguagli la Markel in un’intervista a Le Monde (**), in un momento in cui “la crisi finanziaria sta mettendo a dura prova le democrazie liberali e proprio quando la combinazione fra capitalismo e autoritarismo comincia a proporsi come modello alternativo”, come sottolinea Marta Dassù in un articolo sul sito dell’Aspen (una versione dell’articolo è apparsa sul quotidiano La Stampa il 5 Febbraio).

In quell’articolo, il sottosegretario agli affari esteri (vicina a D’Alema e ai circoli atlantisti), risponde a ZbigniewBrzezinski, l’ex “rivale” di Kissinger per la politica estera americana, il quale ha sostenuto che gli Usa non sono in declino, anche se “non abbiamo più il comando e il rispetto del mondo, e continuiamo a leggere che la Cina presto sostituirà gli Stati Uniti, da qualche parte tra il 2016 e il 2018”.

Le conseguenze sono un drammatico declino della posizione globale dell’America in contrasto all’ultimo decennio del XX secolo, una delegittimazione progressiva dell’America presidenziale e quindi della credibilità nazionale e anche una significativa riduzione dell’autoidentificazione degli alleati dell’America con la sicurezza americana”.

Quindi l’ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter sottolinea, “La nostra infrastruttura è vecchia e decrepita. In Europa e in Giappone treni ad alta velocità collegano le principali città in tutta comodità. Qui chiamiamo Acela il nostro treno veloce, costruito per velocità di 150 miglia orarie che non raggiunge a causa delle massicciate che non può prendere. Sulla finestre attraverso cui si guarda, non si vede una nazione del futuro, ma scene che ricordano un paese del Terzo Mondo.”

Gli Stati Uniti, sostiene Brzezinski, sono ancora la prima potenza economica mondiale, ma devono rivitalizzare la loro economia, restaurare i “fondamenti fiscali”, e tuttavia mostrano un sistema politico bloccato e comprato dal denaro, un livello eccellente per quanto riguarda l’istruzione di vertice ma con livelli intermedi imbarazzanti e tra gli ultimi della scala mondiale. Gli americani, dice, “sono ossessionati dal quotidiano” e si attardano su questioni sorpassate, mentre i cinesi “pensano nella prospettiva di decenni”.

Nella contesa con la Cina egli suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero spingere l’Europa ad allargare l’occidente portando dalla sua parte Russia e la Turchia (e deplora un eventuale intervento in Iran sia degli Usa che di Israele). Brzezinski, in particolare, considera errata la politica obamiana in termini di confronto con la Cina, riferendosi all’annuncio del potenziamento della base militare australiana di Darwin: “diventa molto facile demonizzare la Cina ed esserne a sua volta demonizzati”.

La Dossù considera la mappa mentale di Brzezinski ancora «orizzontale», da Ovest verso Est, ossia una concezione che “continua a riflettere, assieme all’impatto dell’ascesa della Cina, i nodi rimasti irrisolti dal secolo scorso: integrare la Russia nella comunità occidentale” che è una delle speranze almeno in parte mancate del post 1991, sottolineando che “il veto russo all’Onu sulla Risoluzione di condanna della Siria conferma tutta la distanza che resta”, ma viceversa tacendo delle iniziative ostili degli Usa verso la Russia, non ultima quella dello scudo missilistico e di sostegno all’opposizione russa interna.

Scrive il sottosegretario, “Esiste anche, tuttavia, una mappa «verticale» da esplorare: la possibilità, cioè, di associare le sponde meridionali dell’Atlantico, dove grandi potenze economiche in pectore come il Brasile possiedono in teoria un «software» democratico occidentale, quelle radici storiche e culturali che ne costituiscono la base identitaria. In altri termini: l’Occidente più largo potrebbe avere una gamba importante non solo più a Est ma più a Sud. E la visione strategica potrebbe essere questa: una comunità «panatlantica» del XXI secolo, in grado di beneficiare di risorse tangibili (la spinta aggiuntiva di un’area emergente) e di fare leva su radici culturali comuni. Per gli europei, prima che per gli Stati Uniti, tenere in vita l’Atlantico è una condizione per continuare a contare, nel secolo del Pacifico. Anche per questa ragione, proposte come la creazione di qualcosa di simile a una free trade area transatlantica andrebbero valutate non solo in chiave economica (con i loro costi e benefici settoriali) ma anche per la loro importanza strategica”.

Ma di là di questa considerazione, tesa a ribadire l’importanza della visione atlantista classica con riguardo ad un allargamento e potenziamento verso sud, a paesi come il Brasile (uno dei più ricchi di risorse e con 200mln d’abitanti), la Dassù considera necessario e giusto il ruolo di balancing che Brzezinski raccomanda agli Stati Uniti in Asia, non fosse altro, soggiungo a mia volta, come tattica temporeggiatrice, del resto già suggerita da Kissinger, cioè fino a quando almeno gli Usa (e l’Europa) non avranno sistemato in qualche modo i loro guai e la Cina non verrà alle prese con problemi sociali e demografici interni.

In conclusione Marta Dassu scrive: “una delle cause del relativo declino dell’Occidente è la tendenza a rinunciare alle proprie armi vincenti: la concorrenza, la ricerca scientifica, l’etica del lavoro, fino a dubbi nei propri sistemi politici. Negli ultimi due decenni, la rivoluzione delle aspettative «crescenti», che aveva garantito il successo del modello occidentale, si è trasformata nel suo opposto. Le conseguenze economiche, politiche e sociali sono ancora tutte da misurare”. E qui si capisce la necessità che spinge l’attuale dirigenza politica atlantica e segnatamente europea alle politiche di riforma “strutturale” come questione essenziale di sopravvivenza. Ma in generale il processo storico in atto non verrà dettato né da Brzezinski, né da Obama o da Xi Jinping, ma dalle contraddizioni peculiari di ogni contesa imperialistica.

(*) Vedi il ruolo del Turkmenistan (gas) e Kazakistan (petrolio). Inoltre un quarto di quanto rimane delle riserve petrolifere accertate si trova nel mondo arabo, né va dimenticato che la Cina è il quinto produttore mondiale di petrolio.

(**) «Nel corso di un lungo processo, trasferiremo sempre più competenze alla Commissione, che poi, per le competenze europee funzionerà, come un governo europeo. In questo quadro rien­tra un Parlamento forte. La seconda camera è costituita praticamente dal Consiglio con i Capi di Governo. Ed infine abbiamo la Corte di Giustizia europea quale corte suprema. Questo potrebbe essere l’assetto futuro dell’Unione dell’Europa, in un prossimo futuro, come ho già detto, e dopo molti passi intermedi».
   

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