venerdì 16 marzo 2012

La rivoluzione


Tutto ciò che riguarda direttamente o indirettamente la nostra vita individuale e sociale si muove secondo coordinate che hanno a che fare, in ultima analisi, con il processo di valorizzazione del capitale. Questo fatto molti lo ignorano, altri lo percepiscono appena, e tuttavia la realtà non muta in conseguenza della nostra coscienza. A tale riguardo, non è inutile sottolineare che le responsabilità oggettive del personale politico e tecnico, sia a livello nazionale e sovranazionale, che sovraintende alle nostre sempre più precarie condizioni di lavoro e di vita, devono essere giudicate indipendentemente dalla rappresentazione ideologica positiva e di comodo così imposta dagli stessi funzionari del capitale e dai loro press-agent.

Non un solo elemento naturale, tecnico o tecnologico è in grado, di per sé, di aggiungere alcunché sul piano della valorizzazione del capitale; solo il lavoro, in determinate condizioni, è in grado di farlo (*). Pertanto il controllo e lo sfruttamento della forza-lavoro, quindi l’estorsione del plusvalore, viene ad assumere per il capitale un carattere fondamentale e strategico per la propria valorizzazione e riproduzione.

La realtà verso cui si muove storicamente il modo di produzione capitalistico, anche in controtendenza alla crisi, è quella della realizzazione di un unico mercato globale dei capitali e delle merci, compresa quella per eccellenza: la forza-lavoro. Di qui la necessità del capitale monopolistico di rendere quanto più omogenee e compatibili le condizioni di sfruttamento del lavoro salariato tra le diverse aree geografiche. Se in Asia la tendenza è all’aumento dei salari, viceversa nelle metropoli occidentali è esercitata una pressione opposta.

Nessuna forza sociale si mostra validamente capace, al momento, di contrastare il processo in atto. Alla fine, possiamo ben dirlo, la rivoluzione l’ha fatta il capitale mediante la riconfigurazione geo-economica post 1989 e con gli accordi del WTO. Ciò ha mobilitato fattori umani, finanziari e tecnologici in aree dalle enormi potenzialità produttive e di commercio. L’emergere della nuova divisione internazionale del lavoro ha costretto i governi occidentali a far fronte all’inedita situazione con misure economiche e sociali che s’ispirano al più classico e becero liberismo. Ecco che l’illusione a lungo coltivata dai partiti riformisti di una società “del tempo libero post-industriale” ha dovuto fare i conti con quella che è l’ineluttabile realtà del capitale (e questo spiega anche la cialtronesca “riscoperta” di Marx).

Ci sono fondamentalmente due modi per incrementare i profitti e con ciò tenere testa alla concorrenza internazionale: aumentare i ritmi produttivi e diminuire i salari. L’aumento di produttività, in assenza d’investimenti e innovazione, è praticato nelle forme tradizionali d’intensificazione dei ritmi, riduzione delle pause, turnazione, licenziamenti, ecc.. Il taglio dei salari avviene in modo prevalentemente indiretto, facendo leva sull’inflazione, quindi  con l’aumento di prezzi e tariffe a fronte del blocco o alla stagnazione dei salari. Per raggiungere questi obiettivi c’è bisogno dell’intervento attivo dello Stato: governo, parlamento, burocrazia, magistratura, media. E la corruzione dei sindacati. L’insieme di queste forze, le quali hanno anche come compito la ridefinizione dello stato sociale, ossia del patto tra capitale e lavoro che ha consentito per decenni la “pace sociale”, rappresenta il braccio armato della dittatura del capitale (**).

Non si deve credere che tale tendenza riguardi solo l’Italia o paesi come Grecia, Spagna e Portogallo. Anche in Germania c’è stata una pressione sulla produttività e sui salari, la quota di lavoratori considerati a “basso salario” è costantemente aumentata – scrive Le Monde diplomatique – dalla fine degli anni ’90, accompagnandosi da un lato all’impressionante aumento dei lavoratori cosiddetti “indipendenti” e una severa riduzione dei contributi sociali. L’utilizzo del subappalto alle imprese dell’Est e lo sfruttamento della manodopera dell’ex DDR, ha permesso alla Germania di ridurre al minimo il processo di delocalizzazione degli investimenti. 

La tendenza a comprimere i salari si è avuta anche in Francia ma in proporzioni minori, laddove le resistenze politiche e sindacali sono state maggiori. Ciò che questo paese non è riuscito di frenare riguarda il fenomeno dell’esportazione delle attività produttive: il trasferimento in Marocco della Renault è esemplificativo. Tuttavia, sia negli Usa ma anche in alcuni paesi europei, come la Germania e la Francia, si punta a riportare la produzione industriale sul territorio nazionale. Bisognerà vedere come e quanto tali intenzioni si coniugheranno con gli interessi del capitale, ossia fino a che punto le condizioni di mercato della manodopera si renderanno allettanti.

Per quanto riguarda l’Italia, invece, la situazione in cui versiamo è nota e destinata a peggiorare.


(*) Il capitale non è interessato solo al controllo della forza lavoro propriamente produttiva, ma a tutto il mercato del lavoro perché questo ha una diretta inferenza in generale sia con i livelli salariali che con la spesa pubblica e quindi con la redistribuzione del plusvalore. Sulla differenza tra lavoro produttivo e improduttivo è sempre instruttivo leggere cosa scriveva Marx:

A. Smith aveva sostanzialmente ragione col suo lavoro produttivo e improduttivo, ragione dal punto di vista dell’economia borghese. Ciò che gli viene contrapposto dagli altri economisti è o sproloquio (per esmpio Storch, Senior ancor più pidocchiosamente), e cioè che ogni azione produce comunque degli effetti, per cui essi fanno confusione tra il prodotto nel suo senso naturale e in quello economico; secondo questo criterio anche un briccone è un lavoratore produttivo poiché, mediatamente produce libri di diritto criminale; (per lo meno questo ragionamento è altrettanto giusto per cui un giudice viene chiamato lavoratore produttivo perché protegge dal furto). Oppure gli economisti moderni si sono trasformati a tal punto in sicofanti del borghese da volerlo convincere che è lavoro produttivo se uno gli cerca i pidocchi in testa o gli sfrega l’uccello, giacché quest’ultimo movimento gli terrà più chiaro il testone — testa di legno — il giorno dopo in ufficio. È quindi giustissimo — ma nello stesso tempo anche caratteristico — che per gli economisti coerenti i lavoratori che producono per esempio oggetti di lusso siano lavoratori produttivi, anche se coloro che consumano tali oggetti vengono espressamente castigati come scialacquatori improduttivi. Il fatto è che questi lavoratori sono effettivamente produttivi in quanto accrescono il capitale del loro padrone; improduttivi quanto al risultato materiale del loro lavoro. Di fatto questo lavoratore «produttivo» è interessato alla merda che è costretto a produrre tanto quanto il capitalista che lo fa lavorare, il quale se ne infischia a sua volta di quel ciarpame. Ma, a esser più precisi, si riscontra poi effettivamente che la vera definizione del lavoratore produttivo è questa: un uomo che ha bisogno e chiede esattamente non più di quanto è necessario a metterlo in condizione di apportare il massimo vantaggio possibile al suo capitalista. Tutto ciò è un non senso. Divagazioni (Grundrisse, Meoc, XXIX, pp. 203-04).

(**) Il presupposto dei propagandisti, siano essi tecnofili o diversamente idioti, è alquanto paradossale: essi sostengono la richiesta che a ridurre i consumi debba essere colui per il quale l’oggetto dello scambio del proprio lavoro con il capitale è il solo mezzo di sussistenza, e non invece colui per il quale lo stesso scambio, ma dal lato del capitale, costituisce l’arricchimento. L’uguaglianza nel rapporto di scambio tra salariato e capitalista è solo fittizia, il fatto essenziale è che per il salariato lo scopo dello scambio è la soddisfazione del suo bisogno, mentre per il capitalista è la produzione di valore, cioè ricchezza. Dal lato del consumo, la differenza sostanziale tra lo schiavo antico e quello attuale è data dal fatto che quest’ultimo non è vincolato nel suo consumo da particolari oggetti e dal modo di soddisfarlo, in quanto la sfera dei suoi godimenti è limitata solo quantitativamente e non qualitativamente, e solo attraverso il limite della quantità l’effetto diventa qualitativo.

5 commenti:

  1. 1a) domanda: perchè, sia gli USA che alcuni paesi europei, puntano a riportare la produzione industriale sul territorio nazionale?

    2a) il brano segnalato con due asterischi, è suo o è di Marx, e se è di Marx, mi segnali di quale opera.

    Per quanto riguarda l'Italia, consiglio di leggere questo reportage dell'espresso, sulla fuga delle industrie italiane, come Fiat; Pompea; Benetton; Omsa; Intesa San Paolo; Stg e molti altri, al fine proprio del maggior sfruttamento della forza lavoro, e quindi maggior estrazione di Plusvalore e indi di profitto.

    http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/03/12/news/industria_fuga_nei_balcani-31250164/

    Grazie e saluti da Luigi.

    P.S.
    L'equilibrio stesso - dato il carattere primitivo di questa produzione - è un caso.
    (K.Marx, Il Capitale, II libro cap.21)

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  2. 1. i motivi mi sembrano evidenti, la desidustrializzazione provoca disoccupazione e altri problemi, quindi motivi strategici; 2. la nota tiene conto della critica marxiana ma non è di Marx

    saluti

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  3. Buon giorno Olympe.

    Bel commento. Complimenti!

    Una domanda, però!
    La seguente frase mi lascia alquanto perplesso:

    "tuttavia la realtà non muta in conseguenza della nostra coscienza".

    Cosa intendi per nostra; cosa intendi per mutazione della realtà; cosa intendi per coscienza?
    Se per nostra intendi almeno la maggioranza dei cittadini, e se per realtà intendi il liberismo, e se la coscienza la intendi come frutto della conoscenza, le conclusioni sono presto fatte: i cittadini non conoscono i processi del liberismo e quindi dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
    Io penso che quando "il cittadino" sarà a conoscenza di tali processi il liberismo diventerà un ricordo del passato.

    Pensi sul serio che quando uno viene a conoscenza di essere sfruttato resti indifferente? A maggior ragione se si rende conto che anche i suoi prossimi conoscono la sua situazione? Io penso che allo stato attuale l'individuo, privo di qualsiasi strumento conoscitivo e di analisi, procede per intuizioni e insinuazioni, e lo fa con molti ragionevoli dubbi e, quindi, non acquisisce sufficiente coraggio se non un po' di follia in determinati casi, quando guidato dall'alto e non si espone in prima persona.

    I cittadini non sanno ancora che il loro risparmio, anche dalla busta paga e per quanto misera possa essere, provoca debiti e fallimenti dei loro vicini di casa. Ancor peggio se il risparmio deriva dal profitto. Pensano che i soldi arrivino unicamente dal loro lavoro (motivo) e ignorano completamente il processo di creazione della moneta (la causa). Il cittadino non è cosciente che in un periodo di crescita bassa o addirittura negativa non è possibile detenere risparmi.

    E guarda che non lo sanno neanche i capitalisti. Tu pensi sul serio se la gente in giro conoscesse questa semplice regola matematica starebbe a sentire uno come Berlusconi, o adesso Monti, che promette profitti alle imprese? Io penso che gli riderebbero sopra e che questa gente non esisterebbe.

    Ottenere risparmi, sempre per le leggi matematiche, è possibile unicamente in periodi di alta crescita costante. Questo è ovvio, quanto banale! Tu pensi che i cittadini conoscono sul serio anche questa regola di semplice matematica ELEMENTARE? E pensi seriamente se i cittadini conoscessero questa regola si comporterebbero ugualmente? Io penso di no.

    Ottenere risparmi crescenti e costanti è possibile unicamente per la causale di poc'anzi e per il motivo seguente, l'intervento costante è forte dello Stato in economia anche a scapito del territorio e della salute, in quanto la scienza e la tecnologia non avanzano in modo costante. Questa è un po' più difficile da capire, ma pensi seriamente se la gente conoscesse anche questa conseguenza induttiva che il liberismo provoca sull'ambiente e, quindi, sulla loro salute, le cose non cambierebbero? Io penso di no.

    Io penso che sta tutto nella conoscenza:

    proletari di tutto il mondo, istruitevi! :D

    saluti

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    1. Ho non pochi colleghi i quali sanno più o meno perfettamente di essere sfruttati, e, senza essere marxisti, non si fanno illusioni sulla natura del sistema e sui capi in testa dello stesso. Ma - coscientemente - gli va bene così. Perché ritengono di non avere alternative, e se in cambio dello sfruttamento possono tirare in lungo le loro piccole vite, beh, c'è un prezzo da pagare per tutto, no? In realtà temo che la capacità umana di accettare sotto ricatto compromessi al ribasso sia virtualmente infinita, come quella di passivo adattamento alle circostanze.
      mauro

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  4. in questo caso mi riferivo solo al fatto che non è la coscienza a determinare l'essere ma viceversa è l'essere sociale a determinare la coscienza. quanto poi questa influisca nel determinare le cose è un altro paio di maniche

    ciao

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