lunedì 8 ottobre 2012

Lo specchio di Michelangelo



L’amico Luca mi chiede di scrivere due righe a proposito di una serie di post comparsi su codesto blog che intesta: “La fine dei tempi nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Francamente non comprendo il senso di tale intestazione, peraltro scritta di merda. Il titolo di questi post è invece apparentemente più eloquente: “La fine del lavoro culturale – una tragedia borghese”.

Due i punti essenziali sollevati e ora scrivo del primo:

«Il problema oggi non è che il lavoro culturale «non produce ricchezza», come direbbe un Tremonti, ma innanzitutto che ne consuma troppa. In effetti, per produrre beni e servizi si impiegano altri beni e servizi, i cosiddetti fattori produttivi. Questi fattori produttivi, si tratta di stabilire come allocarli. Il lavoro culturale è peculiare perché la sua specifica funzione economica è di consumare la ricchezza al fine di offrire uno sbocco alla sovrapproduzione».

Anzitutto, in senso stretto, che il lavoro culturale offra uno sbocco alla sovrapproduzione, è vero come per ogni altro genere di lavoro o sfera di attività, per qualsiasi forma di consumo, sia essa espressione di salario o di reddito. S’è questo che s’intendeva dire. Così come non è vero che tutto il lavoro della sfera culturale sia improduttivo e consumi troppa ricchezza. Dipende da cosa s’intende per “lavoro culturale”, ossia se esso si scambia con reddito o capitale, e da cosa s’intende per “ricchezza”. Come tutte le categorie dell’economia politica, anche quelle che riguardano il tipo di lavoro o di ricchezza sono categorie storiche legate a un determinato modo di produzione.

Il critico d’arte che tiene una conferenza sull’impressionismo astratto, per quanto la sua conferenza possa rappresentare grande interesse per numerosi idioti, non svolge un lavoro produttivo, nonostante le sue elucubrazioni servano a far vendere i pastrocchi degli “artisti”. Un oggetto d’arte, sia un’opera di Raffaello o uno specchio rotto di Michelangelo Pistoletto, si scambia con reddito, non con capitale. Viceversa, quando un editore pubblica un libro per eternare i gocciolamenti di Pollock, egli si presenta nei salotti televisivi e nelle fiere della vanità letteraria in veste di promotore culturale, ma in realtà è un capitalista. Eppure non si può negare che egli lavori per la “cultura”, e la più alta!

Resta quindi da vedere perché il lavoro culturale consumerebbe troppa ricchezza. Non solo, come detto, le forme del lavoro e della ricchezza, ma anche il rapporto tra produzione e consumo è sempre relativo all’ambito storico e quindi al modo di produzione. Tanto è vero che in una società nella quale non si produce esclusivamente per il profitto e la valorizzazione del capitale, una volta raggiunta la copertura per reintegrare i mezzi di produzione consumati, posta una parte supplementare per l’estensione della produzione, quindi un fondo di riserva o di assicurazione, tutta l’altra parte del prodotto complessivo può essere destinata come mezzo di consumo, in ostriche e champagne o piramidi, in tempo libero e versi sciolti.

Per quanto riguarda l’oggi, ossia il modo di produzione capitalistico, è invece necessario analizzare non solo quanta ricchezza è consumata nella sfera culturale (troppa si dice), ma anzitutto quale forma della ricchezza. Se per “ricchezza” s’intende quote di plusvalore altrimenti destinato alla produzione, allora il discorso è corretto. Se invece la ricchezza destinata al consumo culturale è parte del reddito disponibile alle diverse classi, come quasi sempre accade, non importa nulla di come essa venga spesa o sperperata, se il reddito disponibile si investa in ostriche e champagne o in capolavori immortali dell’arte astratta.

La questione è un’altra e, in questo blog, cento volte sottolineata come questione che riguarda la diminuzione del saggio del profitto. Essa è provocata soprattutto dal fatto che il modo di produzione capitalistico trova nello sviluppo delle forze produttive un limite che nulla ha a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale, poiché non viene prodotta troppa ricchezza, ma perché viene prodotta – per dirla con Marx – ricchezza nelle sue forme capitalistiche che hanno un carattere antitetico.

Leggo ancora: «Questa era in sostanza anche la funzione regolatrice della religione antica, per mezzo del dispositivo del sacrificio(ovvero la distruzione gratuita di una risorsa in eccesso). La divinità nasce appunto come «consumatore artificiale» del surplus. Da questo punto di vista, la Chiesa cattolica ha incarnato con diligenza la sua missione dissipatrice, così accumulando uno straordinario patrimonio artistico».

Le religioni sono state utili al potere anche per altre ragioni, in definitiva si rivelavano assai vantaggiose per gli interessi politici della società e non solo per i loro consumi. Non solo, la chiesa cattolica ha incarnato anche altro per quanto riguarda la sua funzione “dissipatrice”. Se è vero che da un lato costruire cattedrali gotiche comporta un consumo della ricchezza socialmente prodotta, è anche vero che tale attività, per altri versi, comporta un incremento della produzione e uno sviluppo delle tecniche e delle arti, sorvolando sul fatto che anche la conoscenza tecnico-scientifica ha inevitabilmente qualcosa a che spartire con la cultura, per non dire che lo sviluppo della scienza costituisce la forma più solida della ricchezza ed è uno dei lati , delle forme in cui si manifesta la ricchezza.

Breve digressione: la quantità delle risorse a disposizione del clero cattolico antico superava largamente quello che il clero poteva consumare da solo e non esistevano arti e manifatture con il prodotto delle quali esso potesse scambiare il proprio surplus. Perciò il clero lo impiegava nella costruzione di chiese e conventi, ma anche nella più “prodiga ospitalità – come ebbe a osservare Adam Smith (*) – e nella più larga carità”. Esso non solo manteneva quasi tutti i poveri, ma anche molti cavalieri e gentiluomini privi di mezzi propri. L’autorità del clero decadde proprio quando esso cessò di sostenere la carità e l’ospitalità. “I ceti inferiori del popolo – scrive ancora Smith – non videro più quell’ordine di conforto delle loro miserie e il riparo della loro indigenza, anzi al contrario erano irritati e disgustati dalla vanità e dal lusso e dalla spesa del clero più ricco, il quale mostrava di spendere per i suoi piaceri ciò che prima era sempre stato considerato il patrimonio dei poveri”. Un po’ come capita ora con i partiti politici da quando, per ragioni di bilancio, non possono più elargire favori e prebende a piene mani come prima ma continuano a spendere e spandere solo per se stessi e i più intimi.

La chiesa si diede al lusso quando trovò sul mercato i prodotti corrispondenti – sostiene Smith –, e tuttavia a decretarne la decadenza non fu solo un fatto soggettivo, la brama del lusso, ma lo sviluppo oggettivo delle forze di produzione e dei relativi rapporti. Fosse dipeso solo dall’indignazione dei poveri, la chiesa non avrebbe perso un grammo del suo potere. Fine della digressione.


(*) Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Del reddito del sovrano o della repubblica, Mondadori, vol. II, p. 790 - 92.

1 commento:

  1. Ti ringrazio per le osservazioni pertinenti : questa serie di post è un cantiere, e anche un modo di proporre ipotesi da verificare. Riguardo all'intestazione del blog, in effetti è scritta di merda, potresti spiegarmi come ottieni quel bell'effetto sfumato finto-argento su "diciotto brumaio"? Scrivimi pure in pvt xxx.
    - Il passaggio che citi è effettivamente vago, e annuncia uno sviluppo sulla questione della ricchezza e del calcolo del PIL che vorrei riuscire a piazzare da qualche parte. Sul concetto di "lavoro" arriverò invece con il prossimo post, se avrai modo e pazienza di leggerlo. Per esempio non sono sicuro che la strada giusta sia distinguere tra produttivo e improduttivo, mi pare una strada spinosa, moralista, che non aiuta a fare chiarezza, e che appunto non tiene conto della relatività storica del concetto di ricchezza. Trovo più utile affrontare la questione in termini di domanda e offerta. Semplificando quello che svilupperò presto, definisco consumo una forma di lavoro che produce beni per i quali non esiste domanda, e ricchezza la somma dei beni per i quali esiste domanda.
    In questo senso il problema sorge dall'accumulazione di capitale (umano innanzitutto) che ha perso la sua utilità, a causa di una trasformazione del mercato che dipende da una trasformazione strutturale dell'economica che dipende probabilmente, come dici tu, da quello che chiami caduta tendenziale del saggio di profitto.
    - Mi aiuti a recuperare la citazione di Smith ?

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