giovedì 31 gennaio 2013

Niente di nuovo sotto il sole



Scrivevo in un post del 28 luglio di due anni fa:

È passato solo qualche lustro da quando i soliti funzionari ebbri di buona coscienza liberale avevano dichiarato la fine delle ideologie, tranne la loro ovviamente. Era accaduto in coincidenza con gli avvenimenti del 1989 e dintorni, cioè nel momento in cui il sistema economico occidentale, convinto che l’astuzia della merce avesse vinto definitivamente, celebrava i suoi fasti anche sul piano politico-ideologico. Ora la borghesia, preso atto che si trattava di un miraggio, è costretta a una nuova e lacerante consapevolezza, la stessa che sotto la sferza della crisi s’intrufola negli strati più profondi della coscienza di ciascuno, e cioè all’evidenza del tramonto del vecchio mondo (*).

Di fronte a un proletariato vinto ma minaccioso a causa della crisi, la borghesia è decisa a giocare d’anticipo, prima che subentri un movimento organizzato di rivolta che mandi tutto all’aria. Perciò arruola nuovi liquidatori del marxismo, i più impavidi legionari travisati da recuperatori dell’autentico Marx, in realtà i più fedeli revisionisti del suo pensiero. Da un lato essi debbono ammettere con fluenti perifrasi che il rapporto capitale-lavoro e la poetica dell’alienazione sono esattamente i medesimi che qualunque salariato sperimenta da sempre; dall’altro si compiacciono nel sostenere che il Vecchio ineguagliabile critico dell’economia capitalistica in definitiva è uno spettro innocuo e non così pessimista nella sua diagnosi del capitalismo. L’essenziale infine è rassicurare con disincanto la maggioranza operosa che non c’è uscita credibile da questo cul de sac.

Aggiungevo anche:

Le crisi cicliche rappresentano momenti solo temporanei di risanamento del sistema. Nel momento in cui ristabiliscono (anche se in modo violento e con perdite di ricchezza) le condizioni della valorizzazione, il processo di accumulazione capitalistica riprende, benché con sempre maggiore difficoltà. Questa cogenza indica di per sé che il modo di produzione capitalistico ha raggiunto il culmine della fase espansiva ed è entrato nella sua crisi generale-storica, laddove le insanabili contraddizioni minacciano non solo le sue stesse capacità di riprodursi, ma anche l’esistenza stessa della società umana. D’altra parte, la discrasia tra l’enorme capacità e potenzialità delle forze produttive sociali e la sempre più miserabile prospettiva delle condizioni di vita delle masse minacciate dalla crisi – così come l’esaurirsi delle risorse – mette sempre più in evidenza l’assurdità di questo sistema.

Resta inteso però che allo stesso modo in cui si devono respingere le teorie del “crollo”, vanno anche disattese le concezioni che deducono la necessità del comunismo dall’ingiustizia e dalla malvagità del capitalismo, così come dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato. Come si può desumere da quanto detto nel paragrafo precedente, nella misura in cui la crisi nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, allo stesso modo nasce la necessità e possibilità della rivoluzione per il superamento del sistema.

Questo è ciò che scrivevo di certi “recuperatori” di Marx. E tuttavia vi è anche un’altra corrente di pensiero – genericamente anticapitalista (come se ciò significasse di per sé qualcosa) e libertaria, antiautoritaria, egalitaria, antistatalista, anarchica, oppure che rivendica un ascetismo universale (insomma quella fuffa lì) – la quale spara a zero contro ciò che chiama il “marxismo utopico”, nato direttamente dalle illusioni “dell’idealismo hegeliano e oseremo dire anche di quello platonico il quale inficia l’analisi materialista di Marx ed Engels e che nasconde soltanto gli auspici, i desideri e le speranze di questi grandi rivoluzionari”.

Cazzo, questi pettegoli non usano certo delle perifrasi per dire che Marx ed Engels erano degli inguaribili soggettivisti speranzosi e moralisti desiderosi. Chiaro che qui abbiamo a che fare con posizioni che ignorano in che cosa consista “l’idealismo hegeliano” e, per contro, la dialettica materialistica. Anzi, nel caso specifico, essi fanno espressamente riferimento alle teorie di Jared Diamond, ossia alle posizioni tipiche di un materialismo largamente esposto al naturalismo e che si concentra quasi esclusivamente sui fattori bio-geografici, senza tener conto adeguatamente dell’evoluzione dei rapporti sociali e la progressiva produzione di un "secondo" ambiente, "artificiale", da parte della società umana. Insomma, quel metodo di studio che tratta la storia delle società umane alla stregua di colonie di topi.

Questi minuti riformatori, nel vedere che ogni cosa porta in sé la propria contraddizione, colgono anche quelle della società dominante e perciò il contrasto di classe. Tuttavia non scorgono dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movimento politico che gli sia proprio. Questi papaverici filosofi hanno come obiettivo, nel loro spirito teleologico, quello di “opporsi alle barbarie di un capitalismo incapace di offrire un’alternativa alla distruzione del nostro pianeta”. E come vi si oppongono? “ … ritornando alla forma-Movimento [laddove] essa si è sviluppata a livello internazionale con caratteristiche antiliberiste e anticapitaliste a partire dal Wto di Seattle del dicembre 1999 da cui è nato il Movimento dei Forum mondiali”.

Piripicchio, siamo alle svolte epocali. Pragmatici, essi citano Keynes: Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. L’amore per il denaro come possesso, e non come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà considerato una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che si consegnano con un brivido allo specialista di malattia mentali.

È qui esplicitato tutto il fraintendimento di questi chiacchieroni. Nemmeno in Urss l’accumulazione di per sé di ricchezza rivestiva più un significato sociale importante, così come l’amore per il denaro come possesso. Del resto, non è l’amore per il denaro come possesso che spinge il capitale all’accumulazione di ricchezza. Con quelle frasette del cazzo di Keynes sparisce tutta la problematica che riguarda i rapporti di produzione, evapora il concetto stesso di modo di produzione e quello di processo di valorizzazione in quanto processo di produzione di plusvalore (non quindi semplicemente di “ricchezza” e “denaro” tesaurizzato). Così come non è quel che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche, allo stesso modo non è semplicemente quel che ne viene fatto della ricchezza ma come essa viene prodotta che distingue un modo di produzione da un altro e con esso i relativi rapporti sociali, compresi quelli afferenti alla ridistribuzione.

È tipico di tutte le teorie borghesi, nella misura in cui osservano il capitalismo solo dal punto di vista della circolazione – ossia del denaro –mirare a dimostrare che la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico non consiste nello sfruttamento della forza-lavoro, bensì nell’ingiusta ripartizione della ricchezza prodotta, per cui sarebbe sufficiente un’equa distribuzione dei redditi – e quindi una riforma o una serie di riforme – per eliminare l’ingiustizia della società. Nel caso specifico basterebbe far sparire il denaro e la sua funzione.

Non aspirano dunque alla rivoluzione radicale, è sufficiente quella parziale, quella che lascia in piedi i pilastri del capitalismo. Cosa diceva già nel 1848 Marx di questo esercito di salvezza planetaria munito di troppe buone intenzioni? «Al posto dell'azione sociale deve subentrare la loro propria inventiva personale; al posto delle condizioni storiche dell'emancipazione, condizioni immaginarie; al posto della graduale organizzarsi del proletariato come classe, un'organizzazione della società da loro stessi escogitata di sana pianta. Per costoro la storia universale dell’avvenire si risolve nella propaganda e nella realizzazione pratica dei loro piani sociali».

E chi sono costoro? Le stesse categorie di persone alle quali alludeva Marx, sempre 165 anni or sono, riferendosi al socialismo conservatore borghese:

«Una parte della borghesia conta di rimediare alle ingiustizie sociali per garantire l'esistenza della società borghese. È il caso di economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della condizione delle classi lavoratrici, benefattori, protettori degli animali, promotori di associazioni di temperanza, riformatori di ogni risma e colore. E questo socialismo borghese è stato elaborato in interi sistemi».

Il loro compito è sempre stato quello – allora come oggi – di distogliere il proletariato da ogni tentazione rivoluzionaria, sostenendo che a giovarle avrebbe potuto essere non un qualsiasi mutamento politico, ma solo un mutamento delle condizioni materiali di esistenza, dunque dei rapporti economici. “Per mutamento – scrive Marx – delle condizioni materiali di esistenza questo tipo di socialismo non intende però in alcun modo l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo con la rivoluzione, ma miglioramenti amministrativi che restino sul terreno di questi rapporti di produzione e che dunque non tocchino affatto il rapporto tra capitale e lavoro salariato”.

(*) «Le frasi apologetiche per negare le crisi intanto sono importanti in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse – per negare la crisi –, affermano l'unità là dove esiste antitesi e contraddizione. Dunque, intanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma in realtà la crisi esiste, perché queste contraddizioni esistono. Ogni ragione che essi sostengono contro la crisi è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Questo desiderio fantasioso di negare le contraddizioni non fa che confermare le contraddizioni reali di cui ci si augura proprio l'inesistenza” (Teorie del plusvalore, II, parte IV, “Le crisi”). 

mercoledì 30 gennaio 2013

Fino al giorno della morte



Perché stupirsi se uno come Silvio Berlusconi se ne viene fuori con frasi come quella dell’altro giorno su Mussolini? Forse non è noto come la pensa in proposito? È vero che ha scelto tempo e luogo dei più sbagliati (e quali sono quelli giusti?), ma l’ha fatto apposta. Del resto, che tra le tante nefandezze compiute da un torvo individuo come Mussolini – non solo quale capo del governo – ne possa scappare anche qualcuna di decente, ebbene rientra nel novero delle probabilità statistiche.

E non devono stupire nemmeno altre cose, specie in un’epoca – quale la nostra – dove i magistrati si mettono in aspettativa (!) per candidarsi a Presidenti del consiglio dei ministri e minacciare sequestri di proprietà a bischero sciolto. Per esempio non deve stupire che a presiedere nel dopoguerra la Sezione speciale per l’epurazione (dei collaboratori del fascismo, ovviamente) fu chiamato un alto magistrato, membro del Consiglio di Stato, tale Michele La Torre (nessuna parentela col povero e coraggioso Pio La Torre), a suo tempo collaboratore della rivista Il diritto razzista (si può immaginare la serietà e solidità giuridica), la quale uscì dal 1939 inizialmente come supplemento della rivista La nobiltà della stirpe, proponendosi di fornire le basi teorico-giuridiche del razzismo italiano ispirate al concetto di "una disuguaglianza razziale d'origine" che sarebbe diventato cardine dell'intero ordinamento italiano. Tutti i collaboratori di tale rivista – alti magistrati e professoroni – dopo il 1945 fecero carriera raggiungendo i più alti gradi delle magistrature repubblicane. Ce ne fu uno, Antonino Azara, già facente parte del comitato scientifico (sic!) della rivista, che divenne Primo presidente della Corte di cassazione e addirittura ministro della Giustizia nel governo Pella del 1953, poi per tre legislature senatore della Repubblica (DC).

Ma non sono i soli ex fascisti di alto rango ad aver ricoperto ruoli importanti in epoca repubblicana. C’è il caso di Gaetano Azzariti, firmatario del Manifesto degli scienziati razzisti, allora Primo presidente della corte d’Appello che accettò l’incarico di presiedere nientemeno che il Tribunale della Razza. Il suo collega, Michele La Torre, presidente della Sezione speciale per l’epurazione, evidentemente non ne aveva mai sentito nemmeno il nome.

L’Azzariti, dopo la liberazione di Roma nel giugno 1944, riprese tranquillo il suo posto presso l'ufficio legislativo del ministero di Grazia e Giustizia, tanto che alcuni mesi dopo, nel dicembre del 1943, il governo di Salò fu costretto a decretarne il collocamento a riposo (!!!). Il nostro non è a caso il paese di Arlecchino e Pulcinella. L’incarico presso l’ufficio legislativo, l’Azzariti, lo mantenne dal 1927 al 1949, anche quando presiedeva il Tribunale della Razza, e pure nel dopoguerra, con la sola interruzione dal luglio 1943 al giugno del 1944. Nel luglio del 1943 fu nominato ministro della Giustizia del governo Badoglio. Finita la guerra, egli, come detto, rimase al suo posto, per di più con ministro della Giustizia Togliatti, e fu lui a consigliargli di circoscrivere e anzi di porre fine all'epurazione dei fascisti dalle cariche statali (*). Fu anche membro delle due Commissioni per la riorganizzazione dello Stato e per la riforma dell’amministrazione. Diventò poi presidente del Tribunale superiore delle acque pubbliche e, dopo essere stato collocato a riposo per raggiunti limiti d'età nel 1951, il 3 dicembre 1955 venne nominato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi (sottosegretario del primo governo Mussolini, al quale votò la fiducia nei pieni poteri, anche se poi venne a prendere posizioni antifasciste). Azzariti divenne poi presidente della Corte costituzionale (!) il 6 aprile 1957, rimanendo in carica sino al 5 gennaio 1961, giorno della sua morte.

Pertanto, i miei giudizi, più volte espressi su questo blog, sulla classe dirigente e politica italiana sono ben fondati e motivati.

(*) Il diritto di fronte all'infamia del diritto, a cura di Loredana Garlati e Tiziana Vettor, Milano, 2009, p. 202.


Un paese nel fango



Dove cavolo si trova Sìbari? Seppure il luogo non fosse in Calabria, noi non ne sapremmo nulla di cosa vi sta accadendo. Ché poi si tratta delle solite cose, ossia dell’esondazione di un torrente, questa volta il Crati, del quale le solite amministrazioni non hanno avuto cura di provvedere alla sua manutenzione estiva. Quindi dei nuovi agrumeti che hanno formato una barriera che non consente il deflusso delle acque. A farne le spese, questa volta, sono stati i mosaici e le antiche mura di Sybaris, antica colonia degli achei, realizzata nel 720 dell’evo antico e distrutta nel successivo 510 dai crotoniani. È pure scomparsa Thurii, fondata nel 443 dai sibariti superstiti che avevano ricostruito la loro antica città e, infine, non c'è più la polis romana di Copia, edificata un paio di secoli prima di Ottaviano. Frega qualcosa a qualcuno? L’estate scorsa, in un sito archeologico, sentivo profferire questa esclamazione da un “turista” : “Basta, non ne posso più, mi portate a vedere sempre dei sassi!”. E come dargli torto, poveretto, se la storia è intesa come una pietraia proprio da coloro che hanno il compito della tutela e il dovere di provvedervi?

Troppo presi dall’avvilente spettacolino televisivo dove una dozzina delle solite facce si alternano per prometterci meno tasse e quanto di meglio l’Italia non abbia mai visto dopo le grandiose opere di Benito Amilcare Andrea Mussolini. Sono essi l’uno per cento dei candidati alla Camera e al Senato, rappresentano il gotha dei responsabili politici – a ogni livello – del saccheggio del paese, gli alter ego dei grandi proprietari, civili ed ecclesiastici, degli ingenti patrimoni, quelli esentasse e scudati, degli interessi particolari di ogni casta e calibro.

In un paese di milioni di giovani sani e forti, spesso loro malgrado nulla facenti, non si trovano – salvo eccezioni – alcune centinaia di volontari che, in cambio di un piatto di minestra e dell’orgoglio del bene compiuto, vadano a spalare un po’ di quel fango che ricopre non solo Sìbari, ma con essa una nazione priva di memoria e senza vergogna.

PS: a proposito dell'incendio della biblioteca di Tumbuctù, scrivevo l'altro giorno: speriamo la notizia venga smentita. Bene, oggi una buona nuova c'è: è stato smentito l'incendio.