lunedì 22 aprile 2013

Divagazioni del lunedì. Ideologi, tempo storico e leggi naturali e sociali



Marx è il bersaglio privilegiato degli ideologi borghesi anzitutto perché essi devono dimostrare come egli si sia sbagliato nel prevedere la necessità, non già della crisi, poiché essa è evidente e constatabile con precisione, ma del superamento del modo di produzione capitalistico in base alle contraddizioni che gli sono proprie dall’inizio alla fine (*). Il fatto che questo non sia avvenuto dopo oltre un secolo, è dato come prova principe della fallacia della sua “profezia”, e poco importa se il capitale abbia superato realmente tali ostacoli o se invece la sua produzione si muova tra contraddizioni continuamente superate ma altrettanto continuamente poste e sempre più divaricantesi.

Questi ideologi sono abituati a concepire il tempo storico e le leggi naturali e sociali secondo le urgenze della loro “scienza” legata agli interessi che la società del capitale su di essa richiama, di quel loro stesso mondo che produce e consuma teorie secondo le richieste pressanti dei loro editori e del circo mediatico.

* * *



Su questa linea va anche Karl Popper, un filosofo al quale si dà in genere molto credito quale critico di Marx. Immancabilmente anche Popper crea surrettiziamente i presupposti per criticare Marx e per dichiararlo un falso profeta. Se c’è un’etichetta che Marx ha sempre rifiutato è proprio quella di profeta, così come ogni forma di determinismo storico quale la intendono certi suoi critici come il Popper. Secondo questi, una previsione, per essere veramente scientifica, deve basarsi non su una tendenza, su un andamento cioè che può perdurare per secoli, ma che può anche mutare repentinamente per qualche decennio, ma su una legge.

Scrive Marx fin dalla Prefazione de Il Capitale:

In sé e per sé, non si tratta del grado maggiore o minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi naturali della produzione capitalistica, ma proprio di tali leggi, di tali tendenze operanti ed effettuantisi con bronzea necessità”. Pertanto, affermare che Marx non analizza le leggi di movimento quali processi reali, è palesemente e clamorosamente un falso, un tirare a “indovinare” (**). Dire che egli si limita a indicare le “tendenze”, le quali possono mutare a proprio capriccio, significa non aver chiaro il rapporto dialettico tra legge generale e tendenza.

La legge non descrive il movimento della realtà immediata, ma piuttosto cerca di coglierne, di là delle forme, la sua “bronzea” necessità. Così come i “concetti” e le “categorie”, anche la legge è reale in senso mediato, e cioè riflette mediamente la realtà oggettiva. Un modello teorico riflette anch’esso solo in senso mediato il suo oggetto reale. Si chiedeva ironicamente Engels: “Forse la feudalità è stata mai corrispondente al suo concetto?”.

Scoprire le leggi generali che determinano il reale significa anzitutto conoscere ciò che è possibile. E per legge generale di un fenomeno s’intende la sua contraddizione principale espressa in categorie (ad esempio economiche: valore d’uso e valore di scambio; o fisiche: attrazione e repulsione) o simboli (ad esempio matematici) tra loro connessi secondo procedure logiche (o matematiche) materialistiche e dialettiche che ne spieghino il processo reale. Per analisi della tendenza – espressione peculiare della legge – s’intende lo studio simulato della contraddizione principale come processo, e cioè la sua dialettica quantitativa e qualitativa, nei suoi diversi stadi: dall’inizio alla fine.

Forse dunque Marx non ha analizzato e scoperto il contenuto nascosto delle forme dell’economia politica, non ha forse mai posto il problema del perché quel contenuto assuma quelle forme e come tali portino segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini, e l'uomo non padroneggia ancora il processo produttivo? E come tali forme valgano per la coscienza borghese come necessità naturale, ovvia quanto il lavoro produttivo stesso?

Per quanto riguarda il materialismo storico, non è forse vero che Marx considera il movimento sociale come un processo di storia naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma anzi, determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni?

Se Marx non ha individuate le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico, se dunque la scienza non produce conoscenza – come vorrebbe dar a intendere Popper – ma solo un accumulo di “falsificazioni”, di che scienza si tratta? Della scienza che ha in testa Popper.

La chiave di comprensione dello sviluppo storico – contrariamente a quanto pensa Popper in riferimento a Marx – è il metodo logico; pertanto, afferma Marx, nell’andare al nucleo strutturale dello sviluppo storico capitalistico consentendone un’analisi scientifica e sistematica, non è necessario “scrivere la storia reale dei rapporti di produzione”. Il criterio logico di disposizione delle categorie economiche non è soggettivo, la logica dialettica di Marx è una logica oggettiva e materialistica:

“Come in generale con ogni scienza storica e sociale, nell’ordinare le categorie economiche si deve sempre tener fermo che, come nella realtà così nella mente, il soggetto – qui la moderna società borghese – è già dato, e che le categorie esprimono perciò modi d’essere, determinazioni dell’essenza, spesso soltanto singoli lati di questa determinata società, di questo soggetto, e che l’economia politica pertanto anche come scienza non comincia affatto nel momento in cui si comincia a parlare di essa come tale”.

Ecco quindi che è il capitale nella società borghese ad esprimersi come potenza economica che domina tutto. Perciò non è arbitrario che esso debba costituire – nell’indagine scientifica – “il punto di partenza così come il punto di arrivo”. Il concetto che esprime questa tesi fondamentale è quello di “capitale in generale”. Esso racchiude in sé “tutte le contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite dove essa conduce, al di là di se stessa”.

Tale concetto di “capitale in generale”, cogliendo l’essenza propria di ciascun capitale, cioè l’essere plusvalore riproducentesi sulla base di una specifica e storicamente determinata relazione sociale, il lavoro salariato, non si riferisce ad “una forma particolare del capitale”, né al “singolo capitale distinto da altri singoli capitali”, e neppure a capitali concorrenti.

Proprio per questo, lo sviluppo di tutte le determinazioni di questo concetto consentirà a Marx di seguire, simulandola, la storia vitale del capitale, a partire dalla sua genesi e in tutti i successivi movimenti, fino al limite estremo della sua crisi generale (***).

Sul piano propriamente storico, dal lato dell’attività concreta degli uomini, noi acquistiamo libertà poiché possiamo modificare le necessità, creare nuove possibilità e varare il possibile. Possiamo aumentare il grado di possibilità di certi fatti e diminuire quello di altri. Se ciò non fosse nelle nostre possibilità, noi saremo solo il trastullo di casi ciechi e fantastici.

Scrive Marx nei Grundrisse: “Soltanto col capitale la natura diventa un puro oggetto per l'uomo, un puro oggetto di utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni umani sia come oggetto di consumo sia come mezzo di produzione”.

E nel III libro de Il Capitale: “La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minor impiego possibile di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa”.

Come rilevavo in un post precedente, la previsione teorica ci indica dunque un possibile, ma il suo completarsi dipende dall’attività sociale degli uomini, dalla lotta di classe non meno che dalle circostanze storiche reali. Indicandoci un possibile per noi desiderabile, la previsione teorica influisce sulla nostra coscienza e sul nostro comportamento e sollecita un’attività conforme al suo conseguimento.

* * *

(*) Marx ha dimostrato scientificamente come nel concetto stesso di capitale s’individuino già allo stato latente le contraddizioni che si manifesteranno in seguito. Ciò significa che il vero limite della produzione capitalistica sia il capitale stesso, e come il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come il punto di partenza e di arrivo, e come pertanto “L'universalità verso la quale esso tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che ad un certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l'ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono alla sua soppressione attraverso esso stesso”.

(**) Prendiamo l’esempio della legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. La contraddizione a fondamento di questa legge, si esprime necessariamente come processo, come tendenza, come suo carattere peculiare. A questa tendenza del saggio del profitto in caduta, corrispondono delle controtendenze indagate dallo stesso Marx. Esse non sono elementi introdotti dall’esterno nel modello, ma elementi propri del modello: sono gli “anelli di congiunzione” che consentono l’ascesa dal piano della teoria a quello della storia. Non dimentichiamo che il modello marxiano è fondato sulla dialettica e solo su tale base è possibile trarne una sua corretta interpretazione.

L’esperienza storica ha mostrato che il superamento delle crisi di valorizzazione del capitale, rappresenta solo una temporanea e sempre più faticosa ripresa del sistema nell’approssimarsi del limite in cui il processo si arresta. Questa tendenza, quale “tendenza oggettiva di fondo” del capitalismo, non è “un’idea marxiana sconfessata dalla storia del Novecento”, come pensa per esempio Diego Fusaro, ma una realtà quotidiana divenuta persino luogo comune e che solo un approccio a-scientifico e ideologico può negare.

Il limite che segna l’arresto dell’accumulazione e, di conseguenza, il destino del modo di produzione capitalistico, nella realtà concreta non coincide con il “crollo spontaneo” o automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante limite del modello è un istante logico e non immediatamente storico, ma anche perché il movimento reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento concettuale che ne riflette le leggi, tanto è vero – come dice Lenin – che “il fenomeno è più ricco della legge”.

(***) Perciò Marx non aveva bisogno, per rispondere ad altro genere di osservazione, di definire in una sua opera sistematica il “suo metodo”, poiché esso è già operante e riconoscibile nella sua analisi.


2 commenti:

  1. L'avevo letto e ora l'ho riletto con maggiore attenzione. Per questo ti ho scritto "Non ci si deve mai stancare di" (nel senso che tu devi stakanovare, certi concetti giova ribadirli, e io faccio lo sforzo di leggerli... non so se Marx condividerebbe questa equa ripartizione dello sforzo)*. :)

    "dal lato dell’attività concreta degli uomini, noi acquistiamo libertà poiché possiamo modificare le necessità, creare nuove possibilità e varare il possibile. Possiamo aumentare il grado di possibilità di certi fatti e diminuire quello di altri. Se ciò non fosse nelle nostre possibilità, noi saremo solo il trastullo di casi ciechi e fantastici.": i passaggi più tecnici a volte non sono in grado di capirli, ma i concetti generali spero di coglierli bene, senza fraintenderli. Grazie!

    *certo che, detto fra noi, è un colpo basso, soprattutto in un giorno festivo, invece di limitarsi a un "grazie per il commento, a presto", assegnare anche i link dei compiti a casa al lettore lavativo. :)

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    1. avere lettori come te premia i miei sforzi e la sofferenza fisica di digitare date le mie condizioni di salute

      domani, se non succede nulla, nuova lezione. poi interrogo.

      grazie molte

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