domenica 7 aprile 2013

Divagazioni festive



Quello di inseguire il leaderismo è un vizio che specie noi italiani non abbiamo mai perso, la nostra storia nazionale ne è molto più ricca di altre. Soprattutto è singolare il nostro modo di considerare storicamente il ruolo delle personalità più o meno di spicco. Non serve citare Macchiavelli o Le Bon, men che meno i fraintendimenti soggettivistici della psicanalisi e dintorni. È vero che il meccanismo profondo dell’autoritarietà è la suggestione, il carisma, ecc., che esiste quindi un meccanismo psico-sociologico di volontaria sottomissione e incondizionata fiducia; nondimeno si deve tener conto del meccanismo opposto, ossia quello della formazione della sfiducia e dell’insorgenza dell’insubordinazione. Così come non si deve immaginare l’autorità, il carisma, ecc., soltanto come il potere di uno o di pochi individui su un gruppo o sulla collettività; in definitiva si possono suggestionare gli individui solo con ciò che corrisponde all’orientamento delle loro esigenze e dei loro interessi, delle loro convinzioni e della loro volontà. È perciò la stessa “autorità” a essere generata dal collettivo, dalla comunità, ed è psichicamente indotta da questa. Altrimenti si rischia di ridurre la storia al carisma o alla follia di singole personalità. Paradossalmente – e chiudo perché su questo tema non voglio divagare oltre – la stessa autorità, il leader, è schiavo del collettivo, del suo stesso mito.



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Notiamo oggi come il leaderismo carismatico ci abbia condotto in un’impasse dalla quale non si riesce ad uscire se non ritornando al compromesso tra vecchie oligarchie e interessi sporchi e minacciosi di un autocrate e della sua corte. Ciò è dipeso totalmente dall’atteggiamento del leader del movimento 5esse, il quale considera – nel suo delirio di purezza – i partiti (e non solo questi partiti) l’espressione di ogni nequizia. È persa così, in un paese immobile da sempre, un’occasione forse irripetibile per avviare un cambiamento – sia pure in chiave riformistica – della politica e del suo rapporto con il paese. Non che potessimo farci chissà quali illusioni, ma se non altro sperare in un quadro d’insieme più decente dei comportamenti e quindi l’occasione per mettere in un angolo una delle parti politiche più marce. Il resto – essendo costituito dai grandi interessi, intrecci economico-finanziari, bancari e assicurativi, così come dalle camarille ministeriali, delle partecipazioni statali, dal potere di gestione degli enti locali – non può essere cambiato, ma solo abbattuto da una rivoluzione sociale inedita.

Soprattutto – lo dico per me – ci si sarebbe potuti attendere una serie di provvedimenti legislativi e normativi che da un lato andassero a sanare gli effetti più macroscopicamente iniqui delle così dette riforme del governo Monti, e dall’altro proponessero delle misure – pur senza farci anche in tal caso soverchie illusioni – per lenire gli effetti delle politiche demenziali imposte dalla Germania per contenere il deficit entro ceri parametri, ossia interventi di riqualificazione della spesa pubblica e d’incentivo dei consumi. Non la Luna, ma qualcosa.

Un giorno considereremo questo periodo storico con malinconia e sconforto, sperando di non dover maledire non solo chi ci ha condotto in questa situazione di dramma, ma anche coloro che ora se ne rendono complici con la loro ostinata inazione.

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Ad Eugenio Scalfari va dato atto di essere stato per un anno esatto non solo l’estimatore principe della stampa italiana per il governo Monti (leggere i suoi editoriali), ma il cantore del nuovo Mosè che ci avrebbe condotto fuori dalla cattività nella quale ci aveva ridotto il faraone di Arcore. Il 5 dicembre del 2012, Scalfari scopriva che Monti “manca di sensibilità per lo sviluppo dell’economia reale”. Quattro mesi ancora ed espone questo preoccupante quadro:

Il Ragioniere generale dello Stato e i suoi più stretti collaboratori, da quando nacque il governo Monti nel novembre 2011 fino ad oggi hanno fatto tutto quanto potevano per bloccare o rallentare provvedimenti destinati alla crescita dell'economia, fino al decreto  -  finalmente varato in queste ore  -  sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese fornitrici.

L'obiettivo della Ragioniera generale è stato di mantener ferma la politica di Tremonti del "nulla fare e nulla muovere". Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha cercato di superare quegli ostacoli ma senza riuscirvi. È dovuto intervenire direttamente Napolitano e la questione, del massimo rilievo per l'economia italiana, è stata finalmente risolta.

O sono dei pazzi, oppure un motivo per aver “fatto tutto quanto potevano per bloccare o rallentare provvedimenti destinati alla crescita dell'economia” dovevano pur averlo. In un paese normale ciò meriterebbe di essere esaminato e valutato nelle sedi competenti, per individuare se ciò corrisponde al vero – come pare palesarsi – e per individuarne i responsabili, quindi per mandarli a giudizio. Ma dire di queste cose, ai giorni d’oggi, sembra di dire sciocchezze.

Mi sovviene a tale riguardo, un ottimo post (nell’analisi, non nelle proposte) che mette a fuoco la strategia che sta probabilmente alla base dei comportamenti criminali sopra descritti:

La base teorica con cui il monetarismo tedesco sta di fatto conducendo l’Europa in un “cul de sac” parte dall’ovvio concetto che un’area monetaria in cui manca una politica fiscale ed industriale comune diviene insostenibile quando i differenziali di competitività al suo interno crescono oltre un livello di soglia massima, per il semplice motivo che ciò genera movimenti di capitale e di fattori produttivi di entità ingovernabile e produce tensioni speculative sul debito, pubblico e privato, delle economie meno competitive, meno attrezzate per generare ricchezza in misura tale da conferire sostenibilità al proprio debito.

La soluzione erronea è rappresentata dall’idea che, al fine di armonizzare i livelli di competitività fra i membri di tale area monetaria, evitando differenziali troppo ampi, e non potendo più deflazionare tramite svalutazioni competitive, la competitività di prezzo all’esportazione debba ricostituirsi tramite una deflazione interna dei costi di produzione, in particolare dei costi salariali, e quindi dei prezzi. Ciò conduce a riforme del mercato del lavoro che lo precarizzano, in modo da ridurre la forza negoziale sui salari da parte dei lavoratori, ed a un progressivo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare, che riduca il costo fiscale e contributivo, e che tagli l’inflazione da domanda.

È stata sposata la teoria della selezione naturale, quella vigente nel regno animale, quella secondo cui ogni intervento statale a sostegno dell’economia ostacola l’andamento dell’economia di mercato e impedisce ai meccanismi del mercato stesso di ristabilire l’equilibrio, dato peraltro un tasso naturale (quanto naturale?) di disoccupazione che nessuna “politica” potrebbe sopprimere. Perciò la politica economica deve limitarsi alla “politica monetaria”, in particolare deve limitarsi al controllo della massa del denaro secondo una regola sottratta alle decisioni politiche, ovvero fino a quando non minacci il sistema bancario e finanziario stesso. In tal caso, ogni intervento deve essere contemperato (si fa per dire) con politiche fiscali e di tagli alla spesa, in un circolo vizioso apparentemente senza fine.

Qui non si tratta nemmeno più di considerare l’idea di abolire la produzione stessa di plusvalore (chi ne parla più?), ma è considerata già sovversiva l’idea di garantire, mantenendo inalterate le condizioni sociali della produzione, una più “giusta” ripartizione della ricchezza. Non per nulla si promuovono le ideologie sul tipo della decrescita con relativo seguito di babbei; le quali, partendo da un presupposto di crisi sistemica reale, arrivano alla conclusione che non è l’anarchia capitalistica a dover essere superata, ma che dovrebbero essere gli indistinti comportamenti individuali, su base volontaria, a doversi emancipare dal modo di produzione capitalistico.


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