giovedì 18 aprile 2013

La Valle della Morte



Ogni innovazione tecnologica comporta i suoi pro e i suoi contro. Le vecchie lampadine a incandescenza non presentano particolari problemi per la salute e sono limitati anche quelli per l’ambiente, mentre si segnalano ben altri motivi di preoccupazione con l’impego delle lampadine fluorescenti compatte, per non dire di quelle alogene.



L’evaporazione del filamento di tungsteno nelle lampadine tradizionali è ritardata da un gas a bassa pressione, normalmente argon, ma la progressiva evaporazione del tungsteno porta all’annerimento del bulbo e spiega la scarsa durata della lampada, e inoltre si tratta di una tecnologia particolarmente inefficiente: basti pensare che soltanto il 5% dell’energia spesa è trasformata in luce, mentre il restante 95% si disperde sotto forma di calore.

Le lampade alogene costituiscono una versione evoluta della tecnologia a incandescenza, presentano una durata almeno doppia  rispetto ai tradizionali bulbi ad incandescenza, grazie a un particolare ciclo di rigenerazione del filamento di tungsteno (*). Le lampadine fluorescenti compatte, invece, sono un’evoluzione delle lampade al neon, cioè delle lampade fluorescenti tubolari. Quest’ultimo tipo di lampade a fluorescenza contiene mercurio ed emettono radiazioni ultraviolette. Invece le lampade a LED, una tecnologia molto diversa, rappresentano il futuro, almeno quello prossimo.

Tuttavia il tungsteno, così detto metallo di transizione, di un colore che varia dal grigio acciaio al bianco, molto duro, sebbene soppiantato dalle nuove lampadine, mantiene ancora diverse applicazioni pratiche, anche come carburo di tungsteno.

Il tungsteno non si trova puro in natura, ma nella wolframite, cioè misto a ferro e manganese, o nella scheelite, che è poi il minerale da cui si ricavano i filamenti per le lampadine, costituiti appunto dal tungsteno che in svedese significa “pietra pesante”. Insomma, il metallo tungsteno ha preso il nome comune dato al minerale che lo contiene.

Questo minerale prende il nome (ma non la pronuncia italiana) da Carl Wilhelm Scheele, un tedesco-svedese del XVIII sec., il quale fu – ormai incontestabilmente – il vero scopritore dell’ossigeno e identificò il cloro, anche se pubblicò le sue scoperte dopo gli scopritori “ufficiali”. Un tempo queste cose, come insegna il caso Meucci-Bell, erano molto frequenti, per non dire delle scoperte-intuizioni di Mendel rimaste sconosciute per tanto tempo. Per non dire ancora di Marx, le cui scoperte scientifiche nelle scienze logiche ed economiche sono quasi ignorate. Scheele identificò anche, appunto, il tungsteno e il bario e il molibdeno.

Fino a una certa epoca, il tungsteno, ossia il minerale da cui è estratto e che ha in genere a che fare con le vene aurifere, non aveva valore. Con l’impiego nelle lampadine a incandescenza, si andò a cercarlo in tutto il mondo. Fino a tempi recenti il minerale da cui veniva estratto il tungsteno proveniva anche da certi giacimenti australiani, come King Island o Saluèn, un posto quest’ultimo, dove il sole ti cuoce il cervello. Chissà poi perché i giacimenti di minerali si trovano in genere nelle contrade più orribili del mondo, per esempio nei più caldi bassipiani del pianeta, come nel Nevada.

Ai margini della Sierra Nevada, sul versante che guarda Lone Pine Canyon, dalle parti dove oggi ci sono le basi dell’Air Force e altri impianti, Hollywood girava i suoi film ambientati nel deserto, una scenografia che funse per molto tempo da “desert-picturs”. Passando su sentieri rocciosi scavati dai cercatori d’oro chissà quanto tempo addietro, si entra nella Valle della Morte, dove non c’è nessuna traccia di vegetazione e il caldo e la polvere sono un incubo. Il suolo è coperto da cristalli di sale e calcio, da rocce che si alzano verso un cielo troppo limpido. Un paesaggio lunare. Un tempo, ora non so, si attraversavano i resti di una città deserta, mi pare si chiamasse Skioor, che fu di decine di migliaia d’abitanti, con case diroccate e dai garage enormi, e quelli che furono chiese, banche, alberghi, bar e perfino discoteche. Non sono rari negli Usa i centri disabitati (o scarsamente popolati), ma quelli di grandi dimensioni provocano una certa inquietudine.

Da questa città fantasma, una discesa ripida conduce nella Valle della Morte. Il suolo bianco per il sale riluce come un lenzuolo mortuario, sembra di essere in un fumetto di Tex Willer. Poi viene un tratto nero come il carbone per la cenere vulcanica che lo ricopre. S’incontrano piccoli mucchietti di terra e sassi, tracce di ciò che furono – dicono – delle tombe. Ancora Tex Willer. Si tratta di vecchi e giovani cercatori d’oro uccisi dal caldo e dallo spossamento, dalla sete e dalla disperazione qualche decennio prima degli anni ruggenti di Hollywood.

Poi il terreno torna pianeggiante e liscio come una pista, i grossi automezzi ci volano sopra. Dopo il calore insopportabile ci accoglie un’ex miniera di borace appartenuta a una società inglese. Vi lavoravano degli indiani, gli unici che potevano sopportare quelle condizioni climatiche. Il giorno dopo, di buon mattino, si traversa il Golfo del diavolo. Cazzo, tutti nomi esotici e benauguranti. Il sale cristallizzato è in forma di onde. Se gli alieni atterrassero qui se ne andrebbero subito per disperazione.

La pista diventa sempre più difficile e con gli automezzi ci si arrampica faticosamente sulle dune, attraverso una desolata solitudine priva di strade (oggi sono molte di più) e di qualsiasi altra cosa, soprattutto nessun essere vivente, non un filo d’erba. Le rare pozze d’acqua non sono assolutamente potabili, né utili a altri usi perché è acqua fortemente arsenicata. Veleno. Chissà quanti cercatori d’oro, arsi dalla sete, morirono bevendola quando pensavano di essere salvi.

Passiamo una seconda notte in questo posto fuori dal mondo, una notte abbastanza fredda e chiara, indimenticabilmente bella e stellata, e poi l’arrampicarsi per i passi della Sierra Nevada per il ritorno a Los Angeles. Non era certo il tungsteno che noi si cercava, forse altro, e non ricordo se nemmeno quello fu trovato.



(*) Nelle alogene il tungsteno che evapora a causa della temperatura elevata reagisce con il gas formando un alogenuro di tungsteno. Successivamente il composto, entrando in contatto con il filamento incandescente si decompone e rideposita il tungsteno sul filamento stesso realizzando un ciclo, il ciclo alogeno. In questo modo la durata di vita di una lampada alogena può essere almeno doppia di una lampadina ad incandescenza normale, sebbene il filamento sia molto più caldo.


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