mercoledì 17 aprile 2013

Pietruzze



Guardando l’immagine di un mappamondo, si può far caso che quasi sempre la zona del globo rappresentata ha in primo piano l’Africa. Sarà perché tutto è partito da lì? Chiedere a Giacobbo. A volte nelle rappresentazioni non c’è proporzione tra l’Italia, sovradimensionata, rispetto al continente africano. Dicono che sia questione di “proiezione” (per contro, vedi Carta di Peters).




Prendiamo un po’ di misure. Solo la Libia è sei volte il nostro paese, l’Algeria, il Sudan e il Congo otto volte rispettivamente. Insomma, quel continente ha una superficie esattamente cento volte l’Italia, oltre tre volte l’Europa, ivi compresa la Russia fino agli Urali. Tre volte gli Stati Uniti, compresa l’Alaska, quasi una volta e mezza l’America meridionale che non è proprio un francobollo. Quasi dieci volte l’India. Insomma, una bella fetta di Terra per cui accapigliarsi.

Una degli stereotipi più diffusi sull’Africa è quello derivante dal film tratto dal romanzo di Karen Blixen. Meno stereotipato Céline, ma nessuno ci darà mai la realtà del furto e dello spreco di carne umana avvenuto a danno dell’Africa. Pare che solo Leopoldo del Belgio di neri ne abbia sterminati una decina di milioni nel “suo” Congo. Nessun film o serial televisivo, giornata della memoria o nastrino da esibire sulla reverse del tailleur.

Quando pensiamo al Sud Africa, per esempio, immaginiamo un posto che in realtà non esiste. È più simile a qualche zona dell’America che dell’Africa. Non ci sono leoni che ci sbranano o serpenti che s’attorcigliano alle caviglie. A volte sembra di essere a Lambrate.

Bisogna considerare le stridenti contraddizioni di quel continente per comprendere, in tutti i sensi, che cos’è “il mal d’Africa”. Nonostante le strade asfaltate, gli ospedali biancheggianti, le dighe ciclopiche, i grattacieli di alcune metropoli, le immense ricchezze del sottosuolo, un’agricoltura potenzialmente floridissima, l’Africa resta ancora una terra di divaricazioni sociali enormi, di crudissima violenza e selvaggio sfruttamento, di miseria e malattie endemiche, emigrazione e disperazione, di cambiamenti climatici estremi. C’è pure chi dice, non del tutto a torto, che anche questi sono stereotipi, che l’Africa nell’ultimo decennio sta cambiando e “crescendo”. Per crescere sta crescendo, ma come? Dicono che si tratta di una “realtà plurale”. Un bel modo per cavarsela. Forse che in Italia la realtà non è plurale, frammentatissima sotto ogni aspetto?

Non è di questo che voglio dire, ma di uno scienziato di origini prussiane. Hans Merensky, nato nel 1871 a Botshabelo, South Africa, da padre missionario, etnologo e famoso scrittore di nome Alexander. Hans Merensky, studiò geologia e ingegneria miniera presso l'Accademia di Stato e l'Università di Berlino, fu ufficiale della riserva.

Completò la sua formazione professionale nelle miniere carbonifere della Saar e poi lavorò per il Dipartimento delle Miniere in Prussia orientale. Nel 1904 si trasferì in Sud Africa per condurre alcune indagini geologiche, viaggiò attraverso l'area conosciuta come il Transvaal. Un geologo tra tanti in cerca di fortuna.

Merensky scoprì giacimenti di stagno nei pressi di Pretoria e anche di altri metalli, un po’ ovunque; lavorò per la Friedlander & Company che lo mandò in Madagascar per indagare su una scoperta di un giacimento d’oro, che poi si dimostrò essere falso. Trasferitosi a Johannesburg, divenne un consulente geologo di successo. Egli pensò che in epoche remote i fiumi e la risacca dovevano aver eroso alle rocce i diamanti, trasportandoli nella sabbia della costa. E, se non nella sabbia, sotto gli scogli. Percorse tenacemente le coste e divenne uno dei migliori conoscitori del Sud Africa e di giacimenti di diamanti.

Molti suoi colleghi non erano d'accordo con le sue ipotesi. Nel 1909, dopo aver visitato i campi di diamanti in Namibia, indicò che i diamanti sarebbero stati trovati lungo tutta la costa occidentale e a sud del fiume Orange. Dopo la prima guerra, le società minerarie ritennero non più necessarie le consulenze dei geologi, assumendoli direttamente alle proprie dipendenze. Merensky si trovò in miseria e letteralmente alla fame se non fosse stato per il sostegno occasionale di Sir George Albu.

Nel 1924 alcuni cercatori lo mettono sulla pista di alcuni giacimenti di platino vicino Lydenburg, cosa che gli permette finalmente di arricchirsi. In seguito le sue previsioni sui giacimenti diamantiferi trovarono conferma, ma non rivelò i luoghi delle sue scoperte, e continuò a cercare giacimenti sempre più ricchi.

Poi all’improvviso annunciò le scoperte avvenute sui suoi terreni del Namaqualand, un deserto senz’acqua che prima della guerra faceva parte delle colonie Sud Occidentali tedesche. Una quantità di diamanti enorme minacciava di inondare il mercato proprio in un momento di crisi. Ciò che le sue biografie non mettono in chiaro è che all’Associazione padronale dei diamanti non restò altra scelta che soddisfare la richiesta di Merensky, ossia pagargli una somma favolosa.

Altra cosa che le biografie tacciono, come spesso in simili casi, è che i nuovi giacimenti posti in seguito sotto il controllo statale, vennero recintati con reticolati e rigorosamente sorvegliati per impedirne lo sfruttamento. Tuttavia, appena si seppe della scoperta, migliaia di poveracci in cerca di fortuna corsero alla Baia di Alessandro (non prende il nome dal padre di Merensky, si trova nella piccola Namaqualand, ai confini con la Namibia, alla foce del fiume Orange) e un po’ più a sud, a Port Nolloth.

Fu necessario inviare truppe e impedire con la forza (con i fucili) lo sfruttamento dei nuovi campi diamantiferi. La faccenda provocò anche una crisi di governo. Vicino a Port Nolloth ci fu nel 1928 una vera e propria battaglia contro i cercatori; quelle zone furono dichiarate chiuse all’accesso e di massima sicurezza e ancor oggi ci vogliono dei permessi per andare in certi posti. Chi veniva sorpreso in quei territori rischiava anni di reclusione, se non peggio.

In viaggio verso la Baia di Alessandro non si nota nulla del presunto romanticismo dei cercatori di diamanti: deserti e dune di sabbia, qualche cespuglio di erba gialliccia, qualche mandria di montoni, qualche borgo abitato, baracche e casupole. In questa zona un tempo venivano raccolti fino a 400 kili di diamanti l’anno. La “città” di Oranjemund conta qualche migliaio di abitanti, ed è un posto controllato tutt’oggi dalla De Beers. Già cento anni fa si temeva che tutto il Sud Africa sarebbe diventato desertico come la parte nord occidentale, ma ovviamente si trattò di una previsione un tantino troppo pessimistica, ma non per quanto riguarda la Namibia e il Botswana (dove il lago Ngami è effettivamente scomparso).

È così che l’ingegnere divenne ricchissimo. Gli è stato dedicato anche un film tedesco (che non ho visto). Nulla a che vedere con quell’operaio nero delle ferrovie – del quale non si ricorda il nome – che scoprì un enorme giacimento diamantifero (i diamanti si potevano raccogliere a manciate), ma nessuno gli credette. È un’altra storia, chissà se la racconterò.


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