lunedì 1 luglio 2013

Per chi suona la campana


Il governo e i partiti, ossia le associazioni a delinquere – per dirla con l’on. Marianna Madia – che presidiano il paese – vogliono apportare dei “ritocchi” alle pensioni. Sarà l’ennesima e non ultima “riforma”, comunque la chiamino. Scopo fondamentale dichiarato: “garantire la possibilità a imprese e lavoratori di affrontare processi di ristrutturazione, e non mettere in pericolo una quota eccessiva dei risparmi garantiti per i prossimi anni dalla riforma Fornero”.

Quella di garantire la possibilità alle imprese di affrontare processi di ristrutturazione, è l’aspetto più saliente della questione, poiché dei lavoratori non gliene frega nulla, come dimostrato, tra l’altro, dalla vicenda dei cosiddetti esodati.

Si vuole garantire alle imprese di potersi sbarazzare della manodopera più anziana, perciò dando la possibilità ai lavoratori di andarsene in pensione con due o tre anni di anticipo rispetto alla normativa attuale (66 anni). Con delle penalizzazioni (8% e 6%). Non leggère se si considera che l’estensione del metodo contributivo nel tempo abbassa di per sé il “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto percentuale fra l'ultimo stipendio e il primo assegno previdenziale.

In sostanza, le pensioni si abbassano nel tempo a causa dei nuovi meccanismi di calcolo dell'assegno, e soprattutto per chi ha lavori discontinui il rapporto fra ultimo stipendio e prima pensione potrà arrivare anche non più del 40% dello stipendio. Si tratta di calcoli effettuati dalla Ragioneria generale dello Stato, non invenzioni.



E tuttavia – si dice – una penalizzazione dell'8% non è sufficiente a mandare in pensione anticipata un lavoratore mantenendo inalterati i saldi previdenziali.

Due osservazioni: le aziende non hanno bisogno di nuova manodopera, di sostituire forza-lavoro, anzi, hanno solo bisogno di ridurre quella attuale. Chiunque abbia un minimo di cognizione di causa su questa questione sa bene che nella generalità dei casi è così.

Seconda osservazione: i soldi per mantenere inalterati i saldi previdenziali verranno comunque trovati, a cominciare dal “contributo di solidarietà” che è stato cassato dalla corte costituzionale per le pensioni dei magistrati e degli alti papaveri di Stato con il pretesto dell’art. 53 della costituzione. Per aggirare l’ostacolo, e prendere due piccioni con la stessa fava, si pensa di estendere il “contributo di solidarietà” anche agli altri pensionati, esclusi quelli al minimo o poco sopra. Non è invenzione nemmeno questa, lo scrive il quotidiano di Confindustria (*).

Come si vede, per non toccare prebende e privilegi, per non mettere le mani sull’evasione (chiamata elusione, ecc.) fiscale legalizzata, per non tagliare 12 miliardi all’anno destinati alla province e altre cose del genere, si va a colpire la solita platea, sapendo bene che essa non reagirà, salvo i soliti borbottamenti e blande proteste.

Del resto si continua ad andare ai seggi per votare in massa, come dimostrano le ultime elezioni di febbraio. Anche le persone più intelligenti si comportano come quelle più sciocche. Non si comprende che il primo e fondamentale atto di rifiuto di questo sistema malavitoso è l’astensione dal voto, così come il rifiuto di ogni collaborazione.

Questo fatto è palmare nella situazione egiziana (e volendo anche in quella turca e brasiliana): in massa hanno votato per il presidente in carica, a milioni ora scendono in piazza per cacciarlo. Pensarci prima, no?


(*) I “contributi di solidarietà” cancellati dalla corte costituzionale partivano da 90mila euro, e nel 2011 a dire al fisco di guadagnare più di questa cifra sono stati 555.294 persone, cioè l'1,35% dei contribuenti. Il 57,9% di loro è lavoratore dipendente, un altro 28,3% è rappresentato da pensionati e i lavoratori autonomi sono il 13,8 per cento. Sopra i 100mila euro di reddito lordo annuo si collocano 428.032 contribuenti (l'1% del totale), sopra i 150mila sono in 156.728 (0,38%) e sopra i 300mila in 31.752 (8 dichiarazioni ogni 10mila).

Una pensione da 90mila euro l'anno (su cui era applicato un contributo di solidarietà del 5%) equivale a un assegno mensile di 6.400 euro lordi per 14 mensilità che diventano oltre 4mila euro netti al mese. Una pensione sopra i 150mila euro lordi (contributo del 10%) significa quasi 11mila lordi al mese e oltre 6.500 euro netti. Per non parlare di chi supera i 200mila euro (taglio bocciato del 15% sopra questa cifra) che gode di assegni di oltre 8mila euro netti al mese.

Pertanto, il taglio, su cui si sono levate le alte grida sdegnate degli interessati, avrebbe avuto solo valenza simbolica. Voleva dire una piccolissima sforbiciata di circa 25 milioni l'anno per 3 anni, su un importo complessivo di 3,3 miliardi. Un'inezia.

L'importo medio delle pensioni erogate in Italia è di 11.229 euro lordi annui; un importo 9 volte più basso del primo scaglione (quello da 90mila euro) dei pensionati ricchi. Quegli 11mila euro lordi che è la media generale, dice che il 13,8% dei pensionati riceve meno di 500 euro al mese, il 31% incassa cifre tra i 500 e i mille euro al mese; circa il 25% veleggia tra 1.000 e 1.500 euro e solo un terzo riesce a superare la soglia dei 1.500 euro.



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