lunedì 3 febbraio 2014

Il lavorio degli economisti


La crisi trasforma le classi sociali e anche il senso di appartenenza ad esse, perciò anche l’identità di ciascuno di noi. Un esempio lo traggo da una statistica Usa, laddove in cinque anni (2008-2013) il numero di coloro che ritengono di non appartenere più alla classe media, bensì alle classi più basse, è aumentato del 28 per cento, ossia il loro numero è sceso dal 53 al 25 per cento. Un dato impressionante che disegna nitidamente più di ogni altra considerazione l’impatto che la crisi ha prodotto nella popolazione americana. Anche la percentuale di chi si considerava appartenere alle classi superiori è passata dal 21 al 15 per cento. È un bel rimescolamento sociale, la fine di un’epoca e di tante illusioni riposte nelle sorti magnifiche e progressive di questo sistema.

Per quanto riguarda l’Italia, la situazione è ben nota. Scrivevo qualche giorno fa: Noi vediamo come l’economia capitalistica non riesca in alcun modo a garantire le promesse di sviluppo e benessere per tutta la popolazione, poiché i bisogni economici e politici del proletariato non potranno mai essere a lungo soddisfatti entro il quadro dei rapporti basati sul valore di scambio e del profitto, nemmeno spingendo la spesa statale oltre ogni ragionevole possibilità finanziaria.



Parole al vento, i più pensano che si tratti di considerazioni personali e non tratte dai risultati di un’analisi scientifica stringente che ha ad oggetto proprio quei rapporti basati sul valore di scambio e del profitto, ossia le leggi su cui poggia il modo di produzione capitalistico. Credono, i più, che il capitalismo consista nella produzione di merci, anzi nella sempre maggiore produzione di esse per rendere più confortevole la nostra vita, non capendo che anche quando ciò accade si tratta di un effetto incidentale, l’illusione feticistica del modo di produzione capitalistico.

La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. Lo scopo del capitalista non è produrre beni, merci per il consumo; il suo scopo è produrre un valore di scambio, un articolo destinato alla vendita, una merce, il cui valore sia più alto del capitale investito, ossia maggiore della somma delle merci necessarie alla sua produzione (stabilimenti, macchinari, materiali e forza-lavoro) e per le quali ha anticipato sul mercato il suo buon denaro (*).

Il lavoro, la forza-lavoro dell’operaio, è l’unica fonte creativa di valore, perciò egli, il capitalista, ci tiene tanto ad abbassarne il valore, ossia il suo costo. Più abbassa il costo del lavoro, ossia più lo sfrutta intensificando i ritmi e allungandone i tempi, più rende a buon mercato la forza-lavoro abbassando il valore delle merci destinate alla sua riproduzione, e maggiore sarà il plusvalore estorto, ossia il profitto, la parte di lavoro erogato e non pagato. Nel plusvalore, nel furto di lavoro non pagato, è l’origine di ogni contraddizione, quindi anche delle crisi.

Tendenzialmente tanto maggiore sarà la capacità produttiva raggiunta, tanto maggiore sarà la massa di valori di scambio (merci) nella loro forma di valori d’uso che resterà invenduta. Tale fenomeno di sovrapproduzione (non solo di merci, ma anche di capitale), appare palesemente come la causa delle crisi; crisi che si manifesta quando il capitalista non è più in grado di realizzare il plusvalore contenuto nelle merci (**).

Tutto il lavorio pseudoscientifico degli economisti borghesi consiste, per l’essenziale, nel mascherare, nei modi più comici, il motivo reale di questo semplice fatto.


(*) La merce è, in primo luogo, una cosa che soddisfa un qualsiasi bisogno dell’uomo; in secondo luogo, una cosa che si può scambiare con un’altra. Nell’unita di valore d’uso e di valore di scambio della merce, è contenuta una contraddizione insanabile, non l’unica in cui si dibatte il modo di produzione capitalistico, ma quella fondamentale e dalla quale originano tutte le altre. Perciò c’è tanto interesse a creare confusione su tali determinazioni, poiché essendo, come detto, la merce un che di duplice, di valore d’uso e di valore di scambio, anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere un carattere duplice, nella forma di lavoro concreto, materializzato, oggettivato, e in quella di lavoro astratto, lavoro astrattamente umano. E qui si apre un altro capitolo.
(**) Vedo di volgarizzare al massimo e perciò si perdoni qualche inevitabile semplificazione concettuale che però non altera la sostanza. Il buon capitalista dorme su un solo materasso, e al massimo con qualche cuscino, dunque non su cento materassi e mille cuscini; si nutre a sazietà e dissipa una certa quantità di cibo, ma non può mangiare e consumare per un milione di persone e neanche per diecimila; mantiene una pletora di servi e di ruffiani, ma essa non può essere una schiera infinita. Solo una parte del profitto accumulato può dunque essere impiegata nel consumo diretto del capitalista e dei suoi lacchè, solo una quota può essere reinvestita nella produzione (il suo scopo è accumulare e perciò allargare la produzione, ecco anche perché non può dissipare tutto il suo profitto). Insomma, l’enorme quantità di merci che il lavoro ha prodotto, desunti i costi di produzione, costituiscono, come valore, il suo profitto (ossia lavoro non pagato), e gli stanno di fronte aspirando, in quanto merci, ad un compratore, cioè a ritrasformarsi in valore, anzi in più valore rispetto al capitale anticipato; ma non possono farlo che nella misura in cui trovano un acquirente.

Non trovano acquirenti sufficienti poiché la somma dei salari (e quella parte dei profitti che il capitalista spende per il proprio consumo e i propri agi), non copre tutto il valore prodotto dal lavoro, e perciò la parte eccedente i salari e la quota del profitto spesa nei consumi del capitalista, resta invenduta, il plusprodotto non si trasforma in plusvalore, in profitto. (Si è astratto qui, per semplicità espositiva, dalla quota di plusvalore destinata ad altre forme di reddito, cioè di spesa e di consumo).


4 commenti:

  1. Il capitalismo ha garantito lo 'sviluppo' (sviluppo e benessere comunque non sono qualitativamente sinonimi) nei suoi termini e presupposti, e diversamente non poteva e non può essere. Lo 'sviluppo sostenibile' è un ossimoro. Peraltro anche gli economisti bocconiani riempiono lavagnate di grafici e formule matematiche per garantire autorevolezza alle loro ipotesi, ma sono i risultati alla fine che possono o non confermare i presupposti.
    Fuori dalle rispettive accademie, in duecento anni ci siamo mangiati quattromila anni di storia biologica.
    Sotto l'aspetto sociopolitico è da tempo che avviene la cosiddetta proletarizzazione del ceto medio (teniamo ancora valide queste categorie), quindi le dinamiche materiali del modo di produzione dovrebbero indurre un'alleanza fra sfruttati.
    Vedremo se almeno l'insieme degli sfruttati sarà in grado di capire e di rallentare in modo sostanziale il taglio del ramo su cui sono seduti.
    E' che la rinuncia arriva quasi sempre per imposizione e quasi mai per scelta.

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  2. Grazie per la presente, preziosamente nobile, volgarizzazione.

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  3. Stavo pensando, dopo aver letto quest'ottimo post, che lei dovrebbe spiegare come la produzione di una merce come le droghe di tutti i tipi (in particolare della cocaina) fa concorrenza ai capitalisti ufficiali e in un certo senso quest'economia criminale, redistribuisca redditi, che non vengono registrati nei Pil nazionali. Sbaglio?

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    1. una merce può essere legale o meno, ciò che conta è che dalla sua produzione, attraverso la vendita, venga tratto un profitto, che poi questa attività venga registrata dalle statistiche è secondario

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