giovedì 27 febbraio 2014

Non è mai troppo tardi / 1


Si leggono cose sempre più assurde a proposito di vari argomenti, cose che un tempo ci si sarebbe ben guardati dal proferire, ma i tempi cambiano e i nostri sono assai tristi.

Si sostiene, ad esempio, che oggi l’operaio partecipi della ricchezza prodotta socialmente in modo assai più copioso rispetto a un tempo quando i consumi della classe operaia erano ristretti a poco più del necessario per la mera sussistenza; “l’evoluzione storica, la nascita di una soggettività delle classi subalterne, le lotte e anche la maggiore ricchezza globalmente prodotta hanno finito però per modificare, nel corso del ’900, la situazione, quanto meno nei paesi occidentali”.

Ed è innegabile che oggi i consumi siano molto più vari e quantitativamente più sostenuti, e questo porta a dire che si assisterebbe addirittura ad “un allargamento assoluto della quota di capitale variabile [salari], dovuta non a una diminuzione del plusvalore, ma a un incremento di tutte le grandezze”.

Il cosiddetto “allargamento” dei salari, ossia il loro aumento, non potrà mai essere assoluto, perché se così fosse la base della produzione capitalistica sparirebbe; né può aumentare il salario, a parità di condizioni, senza una diminuzione del profitto. Né vi può essere, nel lungo periodo, un incremento di tutte le grandezze poiché la tendenza, come legge, è a una diminuzione del saggio del profitto e dei salari.



Ma cominciamo dall’inizio. Il salario indica la quantità dei mezzi di sussistenza che l’operaio è in grado di acquistare con il suo salario monetario (la quantità di denaro ottenuta vendendo la propria forza-lavoro). Aumentando il profitto, diminuisce il salario, e viceversa. Se i salari cambiano, i profitti cambiano in direzione opposta.

Per quanto il salario reale possa aumentare, benché per brevi periodi, la sua tendenza è alla diminuzione. Tra i fattori economici che spingono verso la riduzione vi sono la tendenza generale del capitale a recuperare quote di profitto, l’internazionalizzazione del mercato del lavoro (concorrenza), l’aggravamento dei prelievi fiscali, il taglio dei servizi sociali (diminuzione indiretta).

Più in generale, le variazioni di livello del salario, oltre a dipendere dai rapporti di forza (la forza-lavoro è una merce e il suo prezzo viene contrattato), dipendono dal livello di sviluppo sociale e della produttività, nonché, come dirò poi, dalla lotta di classe.

Il grande sviluppo tecnologico e tecnico nella produzione, l’estendersi della divisione del lavoro, aumentano incessantemente l’intensità e la produttività del lavoro operaio: riducendo il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro (quantunque possano aumentare i salari reali), aumenta il tempo di pluslavoro che produce plusvalore (profitto). Inoltre, aumentando la produttività, diminuisce il valore delle singole merci e dunque diminuisce anche il valore della forza-lavoro espressa in mezzi di sussistenza (salario reale), quantunque possano aumentare i consumi del lavoratore, di qualsiasi tipo.

L’unico modo che ci indica oggettivamente il saggio effettivo di sfruttamento del lavoro è il rapporto fra lavoro pagato e lavoro non pagato, ossia il saggio del plusvalore, in altri termini il saggio del profitto.

La tendenza necessaria allo sviluppo capitalistico è dunque la caduta tanto del salario relativo (confronto tra salario e profitto) quanto di quello reale, anche se, come detto, per periodi limitati di tempo, legati per lo più alle fasi di espansione del ciclo o per l’avvantaggiarsi di particolari condizioni internazionali del mercato del lavoro, il salario reale può aumentare.

Tuttavia, se tale è la tendenza necessaria, ciò non significa che la classe operaia debba rinunciare alla lotta per il proprio miglioramento, considerato che il movimento del salario reale è determinato dai rapporti di forza e dalla lotta fra la borghesia e il proletariato.

I primi (e, ahimè, gli unici in questo momento) ad esserne coscienti sono proprio i padroni del mondo, i quali profondono molte palanche per diffondere la menzogna che la lotta di classe è un anacronismo e non è più necessaria (da parte degli sfruttati, ovviamente), che gli aumenti salariali aumentano i costi di produzione e come conseguenza si restringerà la produzione a causa della concorrenza internazionale (dopo averla realizzata abbattendo ogni barriera!) e ciò si tradurrà in una minore domanda di forza-lavoro e in un aumento della disoccupazione.

Faccio un esempio. Se l’intera giornata di lavoro di un operaio consiste per metà in lavoro pagato e per l'altra metà in lavoro non pagato, posto che egli riceva trenta euro, la metà del valore che egli ha creato, il saggio del profitto sarà del 100 per cento, perché in tal modo il capitalista riceverà trenta euro per la metà giornata che non paga all’operaio. Se invece l'operaio riceve solo venti euro, cioè lavora per sé solo un terzo della giornata, il capitalista riceverà quaranta euro e il saggio del profitto sarà del 200 per cento. Se, viceversa, l'operaio riceve quaranta euro, il capitalista ne riceverà solo venti euro e il saggio del profitto cadrà allora al 50 per cento; ma tutte queste variazioni non esercitano nessuna influenza sul valore della merce. Un aumento generale dei salari provocherebbe dunque una caduta del saggio generale del profitto, ma non eserciterebbe nessuna influenza sul valore.

Se la Fiat va a produrre in Polonia e la Omsa in Serbia, lo fanno per realizzare maggiori profitti, pagare meno tasse e beccarsi le sovvenzioni statali e della UE, non dunque perché l’operaio italiano è un fannullone ed è più conflittuale. Del resto la produttività è determinata dallo sviluppo dalle forze produttive, ossia dal livello tecnico e dunque dagli investimenti, ma da quest’orecchio i capitalisti nostrani non ci vogliono sentire. Resta il fatto che il lavoro ben pagato, come dimostrano i soliti tedeschi, può produrre merci a buon mercato, e il lavoro mal pagato merci care.


Come si vede, la lotta economica di per sé non basta, serve che essa si trasformi in lotta politica, ma perché si trasformi in lotta politica c’è bisogno di organizzazione e di … evitare i talk show. Un bel dire, lo so!

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