lunedì 20 aprile 2015

Imperialismo Usa. Un caso di scuola: le Hawaii


Credo che non si possa non tenere in considerazione Henry Kissinger come uomo di cultura, storico della diplomazia e saggista. Nei suoi libri mostra una grande padronanza degli argomenti trattati, un’acuta capacità d’analisi e di sintesi che si accompagnano a uno stile letterario molto efficace che si caratterizza, per esempio, nell’uso non convenzionale e consapevole della tautologia: «La guerriglia vince se non perde; un esercito convenzionale perde se non vince»; «Uno dei principi fondamentali della guerriglia è che per vincere basta non perdere; un esercito regolare, invece, per non perdere deve vincere».

È in questi giorni nelle librerie italiane l’ultima sua fatica: Ordine Mondiale. Inizia con una perorazione ideologica per mascherare una mistificazione. Egli sostiene, a ragione, che gli Stati Uniti nel dopoguerra si sono adeguati a promuovere tra le nazioni un “ordine cooperativo in inarrestabile espansione” in osservanza di “regole e norme comuni, che abbracciano sistemi economici liberali, che rinunciano a conquiste territoriali, che rispettano la sovranità nazionale e adottano sistemi di governo partecipativi e democratici”.




Ebbene, grazie, verrebbe da dire, dopo aver fatto i comodi loro in lungo e in largo, gli Stati Uniti hanno adottato quei principi, peraltro ampiamente derogati. Non prima d’allora. Gli Stati Uniti non avevano più alcun bisogno di acquisizioni territoriali dopo il secondo conflitto per esprimere la propria egemonia in Europa, nel Pacifico e altrove. Per quanto riguarda l’America latina essi, ben prima del 1898, avevano elaborato la propria dottrina con John Quincy Adams ed enunciata da James Monroe.

La scelta dell’espansione mondiale l’avevano fatta negli anni Settanta del XIX secolo spinti dagli agrari che non si accontentavano più di “reggere la coda dell’aquilone britannico” e dichiaravano di “giocare un’unica carta e respingere le eccedenze delle altre nazioni […] così questo paese [può] assumere l’egemonia mondiale in campo commerciale e finanziario”. Ecco dunque come si manifesta e sviluppa la mentalità liberista ed espansionista: respingere le eccedenze degli altri e favorire le proprie.

In radice il problema era quello fronteggiare le crisi periodiche di sovrapproduzione che spingevano gli agrari alla protesta. Per sconfiggere questo movimento protestatario e per risolvere la moltitudine di problemi sociali ed economici generati dalla rapida oscillazione del ciclo economico, quindi unire una nazione divisa e con una popolazione che nel decennio 1880-1890 era aumentata del 50%, non restava altra strada che favorire in ogni modo un’economia improntata decisamente all’eccedenza.

Per mantenere la pace sociale interna, per favorire la prosperità e i profitti, dunque per conservare il sistema politico esistente, era vitale l’espansione nei mercati esteri, sostenuta da un’adeguata politica imperiale. Questa visione espansionista aprì un dibattito sui temi della potenza marittima, e cioè sulla necessità di rivitalizzare la marina mercantile e incrementare la potenza della flotta militare. Per ottenere questa supremazia sui mari era necessario acquisire territori e porti strategici per stanziarvi le flotte, per i rifornimenti, per controllare le rotte. Ciò che si presenta dapprima come necessità, in seguito trova degli ideologi che scovano la teoria adatta agli interessi perseguiti.

Trattandosi di supremazia sui mari era abbastanza scontato che l’ideologo dovesse provenire dai ranghi della marina militare. Alfred Thayer Mahan era un ufficiale tranquillo e riservato, si era addossato il compito di dare agli Stati Uniti una “voce che parlasse costantemente dei nostri interessi esterni”. Gli agrari, i trafficanti e i banchieri americani, ama anche gli imperialisti di ogni paese, trovarono nel capitano di vascello Mahan il loro profeta. Sull’Atlantic Monthly scrisse: “Vogliano o non vogliano, ora gli americani devono cominciare a guardarsi intorno”.

E si cominciò subito con le Hawaii, con un articolo di Mahn intitolato in un modo che più eloquente di così non si poteva: “Le Hawaii e il nostro futuro potere marittimo”. In esso dichiarava che il dominio dei mari era la base principale della potenza e della prosperità delle nazioni. Mahn pretendeva, e gli venne riconosciuto, di aver scoperto l’importanza del potere marittimo, di modo che chiunque sia padrone dei mari è arbitro della situazione. Forse, da ultimi, gli inglesi non si erano avveduti di tale straordinaria importanza della loro flotta.

Senza gli scrupoli e il pudore dei nostri giorni, l’imperialista americano scriveva: “è urgente prendere possesso, quando si può farlo di diritto, di quelle posizioni marittime che contribuiscono ad assicurare il predominio”. E laddove il diritto ancora non sussista, si fabbrica. Le Hawaii, scriveva, “attirano l’attenzione dello stratega”; esse “occupano una posizione di importanza eccezionale […] e influenzano potentemente i commerci e il controllo militare del Pacifico”. In un altro articolo dello stesso mese e sulla stessa rivista prospettava la necessità impellente di scavare il Canale di Panama.

Già tre anni prima, nel 1887, gli Stati Uniti avevano acquistato a Pearl Harbor una base per il rifornimento di carbone delle navi. Il principale impulso per l’annessione delle isole proveniva dagli interessi dei proprietari americani laggiù, dunque dal trust dello zucchero. Il modo in cui gli Stati Uniti vennero in possesso delle isole hawaiane può essere considerato un modello d’ingerenza e conquista “democratica” di un territorio, in questo caso il Regno delle Hawaii.

Si cominciò dall’evangelizzazione da parte dei soliti missionari, poi dall’imposizione di una costituzione democratica (1887) scritta da avvocati e uomini d'affari bianchi, con tanto di diritto di voto per censo, che fu firmata dal monarca hawaiano sotto minaccia (“Bayonet Constitution”). Quando la regina prospettò nel 1893 di adottare una nuova costituzione, con l’appoggio della Marina degli Usa i proprietari terrieri americani macchinarono una rivolta contro il legittimo governo indigeno hawaiano nel 1893. La monarchia fu rovesciata e al suo posto venne insediato il giudice Sanford B. Dole quale presidente. Subito negoziò un trattato di annessione che poi il presidente Harrison si affrettò a mandare al Senato per la ratifica.

A complicare la situazione dell’annessione vennero le solite beghe politiche di Washington: il presidente Harrison chiese al Senato la procedura d’urgenza per la ratifica e cioè prima che scadesse il suo mandato il 4 marzo 1893. Gli doveva subentrare il nuovo presidente eletto, Grover Cleveland, che dopo una settimana di presidenza revocò dal senato il progetto di annessione delle Hawaii, con grande preoccupazione, tra gli altri, di un certo Roosevelt. Cleveland fece di più, diede incarico al comitato per le relazioni estere di indagare sul colpo di stato avvenuto alle Hawaii con lo sbarco dei marines.

Il Rapporto Blount mise in luce quanto era accaduto, e dichiarò illegale lo sbarco dei marines e ciò che ne era seguito. A sistemare le cose provvide la relazione Morgan che rovesciava le risultanze del Rapporto Blount. La relazione prende il nome da John Tyler Morgan, già ufficiale confederato, poi senatore dell’Alabama, nonché un Grand Dragon del Ku Klux Klan, dunque ovviamente fautore della supremazia bianca e segregazionista, patrocinatore di leggi per l’introduzione del linciaggio legale (!) e la migrazione dei neri fuori degli Stati Uniti, sostenitore dell’espansionismo americano e dell’annessione delle Hawaii. Con un simile curriculum quale poteva essere il risultato raggiunto dalla sua inchiesta?


A Grover Cleveland successe alla presidenza William McKinley, amico degli anessionisti bianchi hawaiani. Dopo una trattativa, nel giugno del 1897, il Segretario di Stato John Sherman concludeva con gli esponenti americani della Repubblica delle Hawaii, nata a seguito del colpo di Stato, un trattato di annessione nonostante l’opposizione dei nativi hawaiani. Anche così le Hawaii restavano di fatto una colonia degli Stati Uniti, e del resto facevano parte della lista di paesi colonizzati presso l’ONU, perciò nel 1959 si decise di farne il 50° stato dell’unione.

Nessun commento:

Posta un commento